Il calvario dei detenuti eritrei bastonati nelle carceri libiche

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  1. Nahara Abish
     
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    Sono 250 i cittadini eritrei sistematicamente percossi e rinchiusi in condizioni aberranti, puniti dalle autorità libiche perché hanno osato rifiutare la firma su moduli che avrebbero sancito il loro reimpatrio e, dunque, la morte



    ROMA - "Siete stati fortunati a prendere solo tante bastonate. Avete infranto la legge libica e questo non è accettabile. Potevate pagare con la vita quello che avete fatto, senza neanche il processo". Sono le parole del direttore del carcere di Al Brak, 75 chilometri a sud di Sebah, temutissimo centro di detenzione in mezzo al deserto dove, dal 30 giugno scorso, sono assiepati tra gli altri 250 cittadini eritrei, arrivati lì dopo un viaggio di 12 ore in un camion-container infuocato dal sole, senza acqua né cibo e con temperature fino a 50°. Sono tutti giovani, molti dei quali respinti dal governo italiano e consegnati alle autorità libiche. Come da accordi. A denunciare l'ennesimo esempio di scempio dei più elementari diritti umani da parte delle autorità libiche è stato il quotidiano l'Unità.

    La "fortuna di essere presi a bastonate" le persone recluse l'hanno avuta dopo essersi rifiutati di firmare dei moduli che i secondini del carcere avevano loro sottoposto e che, secondo gli stessi detenuti, avevano tutta l'aria di essere dei fogli di rimpatrio. Una specie di auto condanna a morte o, nella migliore delle ipotesi, ai lavori forzati per diserzione. Le persone recluse in condizioni che definire animalesche non rende perfettamente l'idea, sono tutte fuggite dall'Eritrea per evitare - appunto - il servizio militare, svolto in condizioni infami e in luoghi impervi e in modo permanente, in un Paese chiuso, isolato e governato da una classe politica arroccata e iper militarizzata nella delicata e complessa regione del Corno d'Africa e che sembra voler stringere rapporti solo con Gheddafi.

    Le legnate sono state inflitte - e vengono regolarmente ancora "garantite", stando alla testimonianza di Moses Zerai, direttore dell'agenzia eritrea Habeshia - ad ogni tentativo di protesta nel carcere di Al Brak, dove non c'è cibo sufficiente per tutti, non c'è acqua, non ci sono servizi igienici e non viene fornita la minima assistenza neanche alle persone che, per via delle percosse, hanno subito fratture alle braccia, alle costole o alle gambe.

    Tutto è cominciato con un sms, proveniente da uno dei pochi cellulari rimasti ancora, chissà come, nelle mani dei reclusi nel carcere di Misurata, la città che s'affaccia sul Golfo della Sirte, dove vengono deportati tutti gli immigrati provenienti dal Corno d'Africa, non appena consegnati alla Libia, dalle navi italiane o maltesi. A ricevere l'sms è stato Moses Zerai: "Ci stanno ammazzando", diceva il messaggio "fate qualcosa". Si è temuto che, data la vicinanza di Al Brak con Sebah, dove c'è un aeroporto, il rimpatrio in Eritrea fosse imminente. Invece i contatti con i 250 disperati si sono avuti anche poche ore fa: si trovano ancora nel carcere di Al Brak, ma temono la visita dell'ambasciatore eritreo che, secondo loro, non annuncia nulla di buono. "E' la dimostrazione - hanno raccontato al telefono - di un accordo scellerato fra autorità libiche ed eritree per il nostro rimpatrio". Sarebbe urgente - ha detto Moses Zerai - "che all'incontro partecipassero altre figure "'terze', come l'Unhcr (che da poco ha riaperto i suoi uffici a Tripoli, dopo la chiusura 1 di circa un mese fa) o del governo italiano, che in storie come queste non ha poche responsabilità".



    Fonte: laRepubblica.it
     
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