Total eclipse of the heart!

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Junior Member

    Group
    Member
    Posts
    12

    Status
    Dead
    Salve a tutti, questa è la prima storia che posto e spero tanto che vi piaccia anche perché ci tengo davvero molto! Voglio essere sincera con voi, questa storia non è opera mia, non tutta almeno, l'ha scritta la mia migliore amica dopo che le ho raccontato un sogno che avevo fatto che l'aveva colpita così tanto da spingerla a buttar giù questo racconto! Beh che dire altro? leggete e fatemi sapere che ne pensate! :uyu:





    Capitolo 1

    Sabato sera. Come sempre si lavora. Come sempre mi guardo intorno cercando di capire quale posto occupo esattamente nel mondo, qui a Berlino, nel mondo intero.
    Mi sento sola. Sola ed estranea a tutto ciò che mi circonda. Cioè, generalmente sono di umore diverso, ho una disposizione d’animo più allegra e positiva, ma stasera ho come una cappa di gelo dentro che non riesco a scrollarmi di dosso. Un brutto presentimento che quasi non mi lascia muovere, pensare e perfino respirare.
    Forse sono un po’ troppo stressata. <<pssssssh! Eden!>>. Alex mi fa cenno di avvicinarmi, io alzo gli occhi al soffitto che mostra, come fiori assurdamente tondi e fluorescenti in un prato nero, i bagliori dei fari.
    Mi avvicino, scruto il mio socio che sembra confuso, agitato in un modo inspiegabile. Che cavolo gli prende? Vero che è sabato, ma abbiamo avuto serate in cui davvero c’era da strapparsi i capelli, un casino tale da non sapere a chi fregare l’aria per non collassare.
    <<che succede?>>, gli domando, passando a Charlie un vassoio. Charlie è un nostro dipendente, l’ultimo arrivato. Ancora qualche volta si perde. Ma è tanto carino… e ci mette un sacco di buona volontà. D’altronde, anch’io quando ho cominciato ero un po’ come lui. Un po’ meno imbranata, forse.
    <<che stasera non puoi permetterti il lusso di stare a guardare, tesoro. Mi serve il meglio di te>>.
    <<che?! Alex, ma hai bevuto?>>, domando, inarcando un sopracciglio, non troppo per paura di perdermi una lente. <<oh, no, non mi dire che Licht è di nuovo malata… è la terza influenza in un mese, non può inventarsi qualcosa di meglio? Un’epatite virale, una febbre gialla…>>.
    <<sì, magari la sifilide… muoviti va’! E sbrigati>>.
    Scuoto la testa, risistemando nell’elastico una ciocca sfuggita alla coda. Meno male che stasera mi è venuto il ticchio di mettere la divisa, camicia bianca, gonna nera a pieghe e calzettoni a metà coscia… sembra una roba da collegiale hard. Ecco cosa succede a prendere l’appuntamento dal parrucchiere quando si deve andare col proprio socio a scegliere le nuove divise per il lavoro. E fidarsi di un venticinquenne single con gli ormoni in libera uscita è la cosa più insana che si possa fare. Mi è già andata bene che non mi so ritrovata vestita come un manga giapponese, magari una bella geisha… con Alex non si può mai essere troppo sicuri di come va a finire.
    Cambio le scarpe, saluto i tacchi per infilare un comodo paio di Converse, nere e bianche… almeno questo l’ho apprezzato di Alex, che si è fermato all’essenza. Bianco e nero. Ombra e luce. Presenza e negazione assolute del colore. Niente pacchianerie, camice rosso vivo alla Garibaldi maniera o calze giallo canarino. Mi guardo nello specchio dello spogliatoio, sciolgo i capelli e li tiro di nuovo indietro… non ho il tempo d’intrecciarli, basta una semplice coda. Le ciocche nere così si vedono a malapena, ma tanto capirai, mica le ho fatte per qualcuno, le ho fatte per me. Ripasso un istante la matita sotto gli occhi, un lungo tratto nero che sfuma in una piega scura all’angolo dell’occhio: sinistro, poi destro. Una passata di lucidalabbra… solo un po’: non ho voglia di affrontare avances e commenti maliziosi sul mio piercing alla lingua e quello all’'ombelico, così come quelli sul mio tatuaggio sul fianco. Non avrei risposte spiritose e cortesi insieme per rispedire tutto ai mittenti, stasera, quindi meglio evitare.
    Almeno sull’anellino al sopracciglio non hanno niente da dire. E meno male. Allaccio la cravatta al collo ed esco, con un sospiro rassegnato passo a recuperare il mio trasmittente per le ordinazioni. Torno in sala e mi aggrappo al bancone mimando il gesto di un gatto che si arrampica sugli specchi.
    <<e’ inutile che fai così, stasera ti tocca, gioia>>.
    <<okay. Da dove comincio a coprire?>>.
    <<non devi coprire, la Licht è arrivata due minuti fa già in divisa… si è cambiata in macchina mentre aspettava che suo padre la raggiungesse e la aiutasse a cambiare la gomma che aveva bucato…>>, spiega Alex, che sta già ridendo aspettandosi la mia reazione perplessa.
    <<non ci credo, ma chi è quella ragazza?! Cioè, se quelle che racconta non sono tutte stronzate per pararsi il posteriore, le manca solo la nuvoletta di Fantozzi in testa e poi sta apposto!>>, commento infatti. Mai conosciuta una con una sfiga del genere. O è una bugiarda patentata, o è una calamita per la sfortuna. Capitano tutte a lei, continuamente… e a vederla, sto cominciando a pensare un po’ che sia tutto vero.
    <<dai, poche chiacchiere, e fa un salto nella zona riservata. C’è un tavolo per te>>.
    <<oh, dai cazzo, Alex! Non puoi mandarmi lì, ci sono soltanto mocciosi sbruffoni con la macchina del papino e orridi di mezza età che fingono di essere ancora giovani e girano in cravatta e scarpe da tennis! Ti prego!>>.
    Lui mi squadra con un’occhiata sorniona, poi scoppia a ridere. <<niente “ti prego”. Dai, muoviti socia!>>.
    Con l’aria di un martire al patibolo, mi avvio verso la zona riservata. Per carità, è bellissima: luci soffuse di rosso e viola, atmosfera tranquilla, i rumori che arrivano ovattati dalla sala accanto danno l’impressione di trovarsi in un acquario. Peccato che grazie alla crisi in quest’ultimo periodo sia frequentata soltanto da gente che io personalmente non farei entrare nemmeno nei bagni del locale, e neanche se ne avessero necessità impellente. Ma purtroppo… le spese corrono, anzi galoppano, e chiudere le porte non si può.
    Percorro il corridoio di specchi dipinti con fare sicuro, grazie alle Converse il pavimento non mi ondeggia sotto i piedi. Mi sa che stasera avrei fatto meglio a prendere spunto da Suzanne e darmi malata io. Finché non mi sarò richiusa la porta del mio appartamento alle spalle, non avrò levato calze ed elastico per i capelli e sentito sulla pelle il calore bagnato del getto della doccia, non mi sentirò al sicuro.
    <<buonasera>>, saluto, mentre armo il blocchetto elettronico per le ordinazioni. Alzo lo sguardo e…
    Bip… Bip… bip… Biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip…
    Altro che cattivo presentimento. Questo è un infarto. Di quelli seri. Le quattro paia –anzi cinque- d’occhi che mi si fissano addosso non sono proprio del tutto sconosciuti. A me e a qualche centinaio di migliaia di persone, per non dire milioni.
    Ossantocielo…
    <<salve>>, risponde uno dei quattro, dai grandi occhi bruni e i capelli neri. Mette le mani sul tavolo, intrecciando le lunghe dita sottili dalle unghie nere.
    Non so dove guardare, mentre poso i menù sul tavolo. Tutta la mia sicurezza è sfumata in un secondo, polverizzata, annientata. Solo un’estrema tensione della volontà impedisce alle mie mani di scatenarsi in stile sismografo.
    <<posso già portarvi qualcosa?>>, chiedo, abbozzando un sorriso; e il ragazzo seduto accanto a quello che ha parlato, che peraltro gli assomiglia in un modo inquietante, inizia a ridacchiare indisponendomi a pelle.
    <<no, grazie. La richiamiamo noi>>.
    <<d’accordo. A vostra disposizione>>. Mi congedo e controllo le gambe per non farle crollare al suolo come una torre di legno cui sia stato tolto un pezzo. Ce la faccio, finché non rientro nella sala principale, ripesco Alex e lo trascino nell’antingresso, dove quasi lo azzanno.
    <<dimmi che è uno scherzo. Dimmi che hai chiamato quel terribile programma di candid-camera e hai deciso di vendicarti per tutte le volte che ti ho rotto le palle con le mie solite lagne. Ti prego dimmi che è così perché altrimenti do di matto>>.
    <<eden, calmati. Vuoi una vodka? Un gin?>>.
    <<tua nonna! Mi ci manca solo quello, così mi sbronzo e lo sa il cielo che diamine potrei combinare!>>.
    <<eden, tesoro, respira. Ho la massima fiducia in te. Sei l’unica su cui posso contare per occuparmi di loro. Chi gli mando, Suzanne? Sybille? O magari Charlie… dai, Eden, va’ lì e sfodera gli artigli. Ma poi fasciali di velluto, mi raccomando>>.
    <<sì, sì, certo>>. Il blocchetto trilla, e io prendo un respiro profondo. Alex mi volta, mi mette le mani sulle spalle e mi spinge fuori.
    <<forza, signorina. All’attacco. Va’ lì e stendili!>>.
    <<ti sembra un termine da usare?!>>, strillo come un’aquila. Ma lui resta completamente insensibile al mio disappunto. Continua a spingermi finché non mi ributta nella sala.
    Infame…
    Torno nella zona riservata, sforzandomi di esibire una disinvoltura che stasera già difettava e di cui adesso non è rimasto nemmeno un briciolo.
    Crollo la testa, senza più ribellarmi. Sarebbe inutile, Alex quando dice una cosa non cambia più idea, nemmeno crollasse il mondo.
    <<bentornata>>, mi saluta lui, quello che più di tutti avrei voluto evitare di incontrare… e non solo questa sera, ma per tutta l’intera mia vita. <<perché non ci fai compagnia?>>.
    Perché poi altrimenti andrò a farne anche ai pazienti della clinica psichiatrica più vicina, garantito. Non esiste che esco viva da uno shock del genere. Già adesso mi sto chiedendo quante zone stiano diventando necrotiche nel mio cervello, quanti neuroni mi saranno rimasti domattina quando mi sveglierò.
    Peccato che a questa domanda ho già la risposta. Nessuno.
    <<mi piacerebbe, ma si dà il caso che stia lavorando, per cui… mi dispiace tanto, ma non è proprio possibile>>, obietto, alzando su di lui uno sguardo di sfida.
    E’ tutta una finta, io lo so ma sto pregando disperatamente il cielo che lui non se ne accorga. Mantenermi lucida e calma è una fatica immane che sta consumando tutte le mie energie. Se non si danno una mossa non arriverò a fine serata che Alex dovrà accompagnarmi al pronto soccorso perché mi facciano un’iniezione, non so però se di valium o di adrenalina. Ho il cuore che batte così veloce che, paradossalmente non lo sento più.
    Raccolgo le ordinazioni, le trasmetto alla cucina e cerco di defilarmi senza dare troppo nell’occhio. Li lascio che parlottano, ridono e scherzano a proposito di qualche loro faccenda personale.
    Okay, credo che giunta a questo punto posso anche formularlo lucidamente, dare forma compiuta a questo pensiero. Ormai è accaduto e non può andare peggio di così.
    Sono loro. I Tokio Hotel al gran completo. Bill Kaulitz, Georg Listing e Gustav Schafer.
    E poi c’è lui, Tom Kaulitz. Che mi invita ad unirmi a loro.
    Ossantocielo…
    Mi fermo un istante a riprendere fiato. Ho il terrore che nei miei occhi possa leggere scritto a chiare lettere ogni mio pensiero, ogni flash, ogni immagine, ogni sogno riguardante lui che sia passato nella mia mente negli ultimi tre anni. Tutto a causa di una sensazione poi divenuta sentimento che mi ha scatenato dentro lui con i suoi sorrisi, i suoi sguardi, la sua musica.
    Ma finché avveniva su uno schermo era un altro paio di maniche. Ora che è qui davanti a me… ahi, che male. Il cuore mi pulsa dolorosamente ad ogni battito. E il resto del mio corpo lo imita senza darmi possibilità di replica.
    Mentirei se dicessi che ho lasciato casa mia in Italia per seguire una speranza che non fosse intrinsecamente allacciata a lui, ma adesso che il mio mondo con tutte le sue sicurezze si è capovolto, non so cosa fare.
    E il fatto che lui mi abbia puntata immediatamente non m’incoraggia certo.
    Le ordinazioni sono pronte, così raccolgo quello che resta di me e delle mie forze per recapitarle al loro tavolo. Mi sforzo di sorridere ai loro “grazie”, di muovermi piano, con gesti misurati; ma lo sguardo che mi scivola addosso con un vago senso di anticipazione mi priva della mia solita scioltezza. E’ come se mi stesse spogliando con gli occhi, pezzo per pezzo. Solo un cieco non se ne renderebbe conto.
    <<grazie>>, mormora educatamente, intrecciando le sue favolose mani sotto il mento. <<scusa, posso farti una domanda?>>.
    <<ma certo>>. A patto che si tratti della pizza o della coca al rum che ti ho appena messo davanti. Perché altrimenti…
    <<ma tu sei vergine?>>, butta là senza alcuna remora, trafiggendomi con uno sguardo al di là di ogni descrizione, perfino peggiore di quello con cui mi stava squadrando poco fa. E’ così eloquente che anche suo fratello lo pungola con un gomito, per fargli capire che sta esagerando. Ma a lui non fa né caldo né freddo. Così faccio finta che lo faccia neanche a me.
    <<no, bilancia ascendente leone. Se ora abbiamo finito con le curiosità astrologiche, mi direste gentilmente cos’altro posso portarvi?>>.
    Lui rimane interdetto, come se non si aspettasse questa risposta. Gli altri invece ridono, e lo prendono bonariamente in giro; Georg gli punta contro l’indice come a dire: <<te la sei cercata stavolta, amico!>>.
    <<niente, grazie mille. E scusi per il disturbo>>, risponde Bill in tono educato e leggermente compunto; ma l’espressione del suo volto perfettamente truccato è rivela ch’è un po’ seccato. Dall’atteggiamento di suo fratello, presumo.
    <<va bene. Con permesso>>. Li lascio di nuovo, giurando a me stessa che se mi richiama per nulla, o peggio, per mettermi in imbarazzo gli stacco la testa dal collo a morsi. Ho le scatole che girano su sé stesse così velocemente che tra poco esploderanno.
    Santo cielo, se fino a qualche ora fa lo adoravo ancora intensamente, in questo momento lo sto detestando a morte. Una cosa è essere un gran figlio di una buona donna e cercare sempre di piazzare i proprio strali per sedurre e accalappiare, una cosa è comportarsi da cafone e chiedere cose che generalmente non si domandano neppure ai propri parenti più stretti.
    Non arrivo nemmeno dall’altra parte del corridoio. Il blocchetto elettronico si accende, mi avvisa che sono stata richiamata. E dato che di là c’è un solo tavolo, non è poi tanto difficile capire chi mi desideri.
    Mhmmm… sono tentata d’ignorarlo e non tornare sui miei passi, ma non ci tengo a passare rogne con Alex a causa di un ragazzino idiota che non sa tenere la lingua a posto. Così, mi appiccico un’espressione neutra sulla faccia e giro sui tacchi… maledizione.
    Una fitta acuta, atroce, mi trapassa la caviglia da malleolo a malleolo. E’ così dolorosa che vedo tutto nero, per qualche secondo. Devo inginocchiarmi nel bel mezzo del corridoio a massaggiarla per poter riprendere a camminare, anche se a fatica. E’ praticamente assurdo, una ragazza che trotterella sui tacchi da mattina a sera va a prendere un colpo simile con un paio di Converse. Non ci posso credere io per prima.
    Che sia stramaledetto. Di sicuro quest’accidente me l’ha mandato lui, quel piccolo presuntuoso invadente e… basta, è meglio se mi fermo. Altrimenti rischio d’incazzarmi così tanto che appena arrivo lì gliene dirò qualcuna direttamente in faccia.
    Dominandomi per non zoppicare e dargli quindi occasione di infierire con qualche altra domanda geniale, torno al tavolo.
    <<scusate, avete chiamato? Posso portarvi qualcosa?>>, chiedo, sforzandomi di tenere a bada il dolore alla caviglia ma soprattutto il sopracciglio che già freme. Se scopro che a chiamarmi è stato lui mi verrà come minimo un ictus, dal nervoso. E se poi scopro inoltre che l’ha fatto senza motivo, l’ictus lo farò venire a lui, perché lo picchierò così selvaggiamente che la sua spiccata somiglianza con Bill sarà solo un vago ricordo.
    <<oh, scusami, inavvertitamente ho premuto il pulsante del tastierino… mi dispiace tanto>>, si scusa lui, con l’aria tuttavia di chi dice l’esatto contrario di quel che pensa, con l’aria serafica proprio dei bugiardi matricolati.
    <<ah… okay, non fa niente. Chiamatemi se avete bisogno>>, replico io, con un’espressione tranquilla, come se me l’avesse data a bere. Ma la coda del mio occhio coglie il gesto di rimprovero che suo fratello Bill gli rivolge non appena mi allontano.
    Rientro in sala, vado dritta al bancone e faccio a Charlie il gesto di chi accarezza un gatto sotto la gola. <<dammi un gin lemon, Charlie>>.
    <<okay. Dove lo segno?>>.
    <<da nessuna parte. E’ per me>>.
    Senza fiatare, Charlie comincia a preparare quanto richiesto; ma neanche avvita lo shaker che il mio blocchetto s’illumina di nuovo.
    <<oh, merda!>>, sbotto, e Charlie si ferma di colpo.
    <<che c’è? Che ho fatto?>>.
    Scuoto la testa. <<niente, Charlie, niente. Tu non hai fatto niente. Finisci il cocktail>>. Lui eclissa lo sguardo azzurro sotto la frangia castana chiara, e lavora al cocktail. Ci mette perfino un po’ più del solito, e già non è che sia propriamente un fulmine; ma stavolta invece d’inclinare la testa perplessa gli sorrido e Charlie poveretto arrossisce.
    Che aspetti pure. Fino alla fine del tempo, se occorre.
    Ma la seconda chiamata non posso ignorarla. Mando giù l’ultimo sorso di gin e sbuffo, irritata. <<grazie, Charlie>>.
    <<di… di niente>>.
    Torno al mio tavolo, e stavolta mantenere la calma è ancora più difficile. <<sì? Avete chiamato?>>.
    <<ehm…>>. Bill, Gustav e Georg scambiano uno sguardo, e poi guardano tutti Tom. Che ovviamente fissa me.
    <<okay. Ha sbagliato di nuovo. Non c’è problema. Con permesso>>.
    Calmati, Eden. Respira… respira….respira… adesso la smette.
    Ma adesso è un momento che non giunge mai. Nelle due ore che restano qui, mi fa andare avanti e indietro come una trottola, una trottola azzoppata per giunta, con pretesti inutili o addirittura senza nemmeno uno straccio di giustificazione. L’esaurimento nervoso sta toccando livelli stratosferici, se non se ne vanno entro cinque minuti giuro che lo butto fuori a calci. Me ne frego, che mi denunci pure. Ma questa soddisfazione me la devo levare.
    Tuttavia, quando li raggiungo per l’ultima volta, Bill esasperato quanto e più di me mi chiede il conto. E’ evidente che ne ha abbastanza anche lui. Grazie al cielo.
    Finalmente, mi torna la voglia di essere gentile. <<certo, subito signore>>. Quasi saltello, appena metto piede nel corridoio. E quando un Alex sbadigliante mi vede arrivare fresca e pimpante come fossimo a inizio a serata e non a buon punto, per non dire alla fine, inarca un sopracciglio castano dorato e si gratta una tempia. <<che diavolo succede? Non mi dire che nemmeno hanno pagato il conto e già ti hanno dato la mancia? E a quanto pare è stata pure generosa… facciamo metà?>>.
    <<ma piantala, cretino, semplicemente si stanno levando dalle scatole. A proposito, me lo fai un favore? Smetti di riporre fiducia in me. Ne faccio volentieri a meno, credimi>>.
    Lui ride, l’infame traditore pugnatore di socie alla schiena. <<dai, adesso stai proprio sparando cavolate. Vuoi forse farmi credere che ogni volta che ti si illuminava il tastierino, il tuo piccolo fragile emozionato cuoricino non perdeva un colpo?>>.
    <<alex, vaffanculo, va’! La prossima volta te la sbrighi da solo>>, lo minaccio. Ma lui non si scompone proprio, anzi ride ancora più forte.
    <<tieni, portagli il conto, dai. Non voglio rischiare casini nel mio locale>>.
    <<tuo? E quando avresti liquidato la mia parte? E poi, di che genere di casini stai parlando, scusa?>>.
    <<be’, Eden cara, se te lo devo spiegare vuol dire che stai messa molto male, tesoro mio!>>, osserva con un’occhiata eloquente. Lo mando nuovamente a quel paese con un gesto molto poco educato, gli strappo di mano il foglio che mi porge e torno zoppicante, dolorante e imprecante, ma finalmente per l’ultima volta, sui miei passi.
    <<signori, ecco a voi>>. Lascio il taccuino sul tavolo, e fingendo di non notare gli occhi di Tom ancora puntati su di me, fisso il mio tastierino come se avessi un sacco di altri tavoli in sospeso mentre aspetto che Bill mi restituisca il piccolo rettangolo di cuoio azzurro polvere.
    <<torno subito>>. Più in fretta che subito, praticamente balzo via alla velocità della luce. La caviglia quasi non mi duole più, quando batto il pugno sulla cassa e passo ad Alex il taccuino. Mi porge il resto, e io mi affretto a riportarlo al suo legittimo proprietario, così sarò libera e potrò trascorrere gli ultimi dieci minuti del mio turno di lavoro a sbronzarmi per dimenticare quest’avvenimento surreale.
    E forse faccio male. Anzi, senza dubbio faccio male, perché rientrando nella zona riservata noto immediatamente che gli altri tre sono già usciti, ma Tom invece no. E’
    ancora qui.
    Dai, Eden. Un altro piccolo sforzo. <<prego>>, dico, posando ancora il taccuino sul tavolo. <<buona serata>>. Mi volto, dentro me sto già esultando quando un tocco leggero ma chiaramente percettibile sul mio fondoschiena fa saltare tutti i muri, gli schermi e i recinti di filo spinato che ho eretto tra me e i miei impulsi per tutta la sera e mi manda il cervello in tilt. Per il fastidio, mica per altro.
    Ma chi si crede di essere?
    Ora gli faccio vedere io con chi ha a che fare… un’idea maligna mi serpeggia nella testa, e decido di metterla in atto. <<tra dieci minuti stacco>>, gli annuncio, aprendomi in un sorriso ch’è tutto un programma. <<se vuoi aspettarmi…>>.
    Lui risponde con un sorriso pari al mio, e mi allontano muovendomi più del lecito… ora ti sistemo io, spocchioso del cavolo.
    Imprecando a tutto spiano tra me e me, a mezza voce chiaramente, recupero la mia roba dallo spogliatoio e saluto i miei “compari”. Alex mi guarda di sottecchi.
    <<vai a divertirti?>>.
    <<sì, certo. Vado a ballare, vieni con me?>>, lo fulmino, sarcastica. Alex ghigna, e io spero ardentemente che di tutti gli accidenti che gli ho inviato stasera almeno uno lo colpisca.
    <<’Notte, ragazzi>>. Abbottono il cappotto e infilo la borsa, tolgo di tasca il cellulare e controllo l’orario. Le due meno un quarto del mattino. Niente male, di solito a quest’ora me ne torno a casa già abbioccata, tant’è vero che rischio di addormentarmi sotto la doccia.
    Ma non oggi. Sono così elettrica che se mettessi le dita in una presa della corrente, esploderebbe il contatore.
    Il buio mi avvolge, appena esco in strada dal retro. Ma non abbastanza da impedirmi di distinguere i contorni neri e dorati che si stagliano netti nell’alone di luce sputato dal lampione all’angolo della strada.
    Sorrido a mezza bocca. Incredibile che sia così a corto di pollastre da ridursi ad aspettare me sul serio. Peggio per lui.
    Mi avvicino, fermandomi a metà dei dieci passi che ci separano per trovare le sigarette dentro la confusione trapuntata della borsa ed elaborare il dolore della caviglia; e lui mi viene incontro. La sicurezza con cui mi porge l’accendino acceso per dar fuoco alla sigaretta finisce d’indispormi del tutto.
    Accendo, sbuffo fuori una nuvoletta densa, dal profumo amarognolo. <<grazie>>, mormoro alzando lo sguardo.
    <<prego>>, risponde, con un tono carico di sottintesi. E poi parte. Un cinque dita spedito dalla mia destra atterra in pieno sulla sua guancia; lo schiocco in questo silenzio rimbomba, riecheggia addirittura. Si spegne solo quando dalla foschia si leva un rumore di risate soffocate, uno scalpiccio impaziente di stivali e Nike che non vedono l’ora di togliere il disturbo.
    <<un consiglio. Se ci tieni a continuare a suonare, non ci riprovare. Altrimenti la prossima volta non mi creerò problemi a portarmi dietro un coltello dalla cucina. Hai capito? Bene. Buonanotte>>. Gli volto le spalle, tentando di procedere a passo spedito ma l’infilare i tacchi con la caviglia in queste condizioni non è stata un’idea geniale… il dolore mi fa vedere le stelle, così vicine che se tendo la mano posso toccarle. Strisciando, raggiungo la mia auto con già le chiavi strette in un mano, ci salto dentro e metto anche le sicure.
    Sto tremando. Da capo a piedi e andata e ritorno. Continuo a tremare chiusa in macchina sotto la pioggia che comincia a venir giù dal cielo, sfaldandosi in piccoli fiumi di cristallo sul parabrezza.
    Somigliano tanto a quelli che vorrebbero scivolare giù dai miei occhi, adesso. Per carità, lo sapevo ch’era un donnaiolo, che appena punta una ragazza ci prova immediatamente, che non si crea nessuno scrupolo a farsi un’infinità di storie da una notte e via… ma ho sempre sperato fossero esagerazioni dei giornalisti, una trovata pubblicitaria… in tutte le band c’è sempre il figlio di buona donna, è una cosa da copione; ho pensato che magari lui fosse un po’ dongiovanni di suo, e poi ci avessero costruito su la reputazione di “dio del sesso” che si porta dietro.
    A quanto pare mi ero sbagliata. Per essere figlio di buona donna lo è, ma non mi aspettavo fosse… così infantile. Così idiota, e… mah, non so neppure io cos’altro dire. Ho il cervello completamente svuotato. Ancora non ci voglio credere.
    Ma forse un po’ è anche colpa mia. Forse, in troppe delle mie fantasie ho voluto immaginarlo diverso. Ho voluto credere che nascosto dietro quella corazza ci fosse un ragazzo timido e insicuro, che ha paura di legarsi perché non vuole essere ferito, che non vuole amare per timore che il suo cuore finisca in frantumi; e forse, in troppe delle mie fantasie ho immaginato di essere quella che gli faceva cambiare idea con un solo sguardo.
    Me lo merito, lo shock che ho subito. Così imparo ad essere ancora così ingenua alla mia età.
    Raccolgo a due mani la forza che mi è rimasta, metto in moto e mi avvio verso l’ospedale più vicino. Speriamo che almeno lì non confermino i miei peggiori timori.
    Ma anche a questo proposito, ho qualche dubbio.
     
    Top
    .
  2. Shine <3
     
    .

    User deleted


    Bella storia! spero che tu possa postare presto un nuovo capitolo! :)
     
    Top
    .
  3.  
    .
    Avatar

    Junior Member

    Group
    Member
    Posts
    12

    Status
    Dead
    grazie :uyu: posterò presto!

    Capitolo 2

    Una settimana. Tanto è il tempo che occorrerà alla mia caviglia per rimettersi in sesto. Al cervello invece ci vorrà un po’ di più… un bel po’ di più per tornare alla normalità.
    Semmai è mai stato normale.
    Col senno di poi, mi sono pentita di quella piazzata. Avrei potuto evitare di dargli quella soddisfazione… perché ne sono convinta, già soltanto replicare alle sue battute è stata una chiara resa alle sue condizioni. Avrei dovuto fingere di non sentirlo, magari di non vederlo affatto.
    Ma ormai è tardi, quel che è fatto è fatto. Con un po’ di fortuna, lo smacco al suo orgoglio maschile lo condurrà a più miti consigli. Non metterà più piede nel mio locale, su questo non ci piove.
    Sbadiglio, maledicendo il tutore che limita i miei movimenti. Già alzarmi dal letto stamattina è stata un’impresa. E fare la doccia ha prosciugato del tutto le mie energie. Ho rinunciato perfino a fare il caffè, e solo l’intervento di Marissa, la figlia della mia vicina di casa, che mi adora come una sorella maggiore –e vai a capire perché- mi ha salvato dallo sclero totale. E’ uscita a fare un po’ di spesa e nell’attesa che ritorni, me ne sto beata sul divano, a fissare il soffitto e rigirare all’infinto nella mia testa il film di ieri sera, ma cambiando finale ogni volta. Il peggiore è senza dubbio quello in cui… abboccavo alla sua lenza. Ma non sono riuscita a guardarlo per intero, questo pezzo. Mi è venuto il mal di stomaco prima.
    Tom Kaulitz. L’amore della mia vita, insomma… potrei anche definirlo così. Ho perso il conto di tutte le notti in cui mi sono svegliata sudata e ansimante perché stavo sognando… lui.
    E l’ho preso a schiaffi. Okay, era uno solo, però…
    Va bene, basta, basta così. Devo chiamare Alex e digli che passi ad accendere un cero in chiesa, prima di andare al lavoro stasera; perché sarà solo a gestire i nostri “bravi ragazzi”.
    Poveraccio, da un lato non lo invidio… ma dall’altro, sono perfidamente felice. Così impara a mandarmi a servire tavoli del genere, la prossima volta.
    Cerco il cellulare nelle tasche del cappotto, ma non c’è. Eppure sono sicura di averlo lasciato qui dentro dopo aver visto l’ora, stanotte… mah. Forse è nella borsa… no, neanche qui. Ma dove accidenti… zoppicando zoppicando, mi armo delle grucce che mi ha prestato la mamma di Marissa e metto sottosopra tutto l’appartamento: pensili, letto, libreria, perfino in bagno, nell’armadietto dei medicinali e nel mio beauty-case. Macché. Non c’è.
    Ma mannaggia… devo averlo perso, senza dubbio. Peccato perché non è arrivato a compiere i due mesi in mano mia. Vabbé, pazienza. Dovrò spedire Alex a comprarmene un altro… semmai riuscirò a contattarlo adesso, prima che mi piombi in casa l’esercito.
    Uff, non sono abituata a starmene a rigirarmi i pollici. Sono tentata di fare di nuovo la doccia giusto per passare il tempo, ma il ricordo della fatica immane fatta per infilarmi nel box prima mi dissuade anche solo dal provarci.
    Sbadiglio ancora. Sbrigati Marissa, dai. Altrimenti mi addormento e poi dovrai passare dal cornicione, per portarmi la spesa.
    Bussano, e con un sospiro di sollievo mi tiro su, mi appoggio alle stampelle e striscio fino alla porta. Marissa mi sorride, entra e deposita le buste sul tavolo.
    <<ti ho preso anche il cioccolato… e le mandorle>>.
    <<dai, che gentile, grazie!Senti, Mari, dovresti farmi un altro favore, grandissimo>>.
    <<ma certo! Dimmi>>.
    <<mi presteresti il cellulare? Ho perso il mio e devo chiamare Alex, altrimenti se viene e mi trova ancora viva mi ammazza lui, perché sono sparita senza avvisare>>.
    <<tieni. Metto su un tè intanto>>.
    <<grazie, sei un angelo>>. Compongo il numero, e un Alex decisamente fuori controllo risponde al primo squillo.
    <<pronto?>>.
    <<alex, sono io, Eden>>.
    <<grazie a Dio! Ma che fine avevi fatto?! E’ mezzogiorno passato, stavo per cominciare a chiamare gli ospedali!>>.
    <<a parte che oggi è domenica…>>, gli faccio notare, ma lui m’interrompe al volo.
    <<appunto, se esiste una rintronata che di domenica mattina si alza alle sette dopo essere andata a dormire alle tre, quella sei solo tu!>>.
    <<… e inoltre, se volevi fare il giro degli ospedali avresti dovuto cominciare da stanotte>>.
    Silenzio. <<oddio, perché? Che hai combinato? Non mi dire che ti sei impigliata in qualche piercing… non dei tuoi>>, sbotta, e poi ridacchia. Se aveva un minimo di possibilità che mi muovessi a pietà e fregandomene dell’ordine del medico di stare a riposo per una settimana andassi a soccorrerlo in quattro giorni al massimo, mò s’attacca al tram.
    <<no, spiacente, ho soltanto una distorsione alla caviglia, mi hanno dato una settimana di riposo assoluto… Alex?>>, domando, preoccupata per l’improvviso silenzio… non sia mai gli sia venuto un infarto!
    <<sì, sì, ci sono. Stavo ascoltando>>.
    <<cavolo Alex, mi stai facendo paura. Da quando ascolti?>>.
    <<da quando devo un favore alla mia preziosa socia. Ieri sera è stato un po’ troppo, mi sento ancora in colpa…>>.
    <<oh, oh, Alex, tranquillo. Non è successo niente! Ho visto Tom Kaulitz, mica la Nera Signora armata di falce!>>, soffio in un sussurro abbassando la voce perché Marissa non senta. Non che sia egoista e voglia tenere per me l’accaduto chissà per quale motivo… ma perché non ho cuore di dare una simile delusione ad una ragazzina che ancora sogna a causa a loro. << Se vedevo quella sì che erano cazzi…>>.
    <<sì, scherza, scherza. Ma se ti fossi vista ieri sera la faccia che avevi, non scherzeresti. Sembrava ti fosse passato attraverso un fantasma…>>.
    Scoppio a ridere, ma è più una crisi isterica, in realtà. <<alex, lo vuoi un consiglio? Piantala di guardare “Ghost”. Altrimenti parecchia gente comincerà a pensare male!>>.
    <<ahhh, Eden!>>.
    Ridacchio, mentre Marissa mi posa davanti il tè. Forse non è così male, stare a riposo… dopo ieri sera, ne avevo un gran bisogno, a rifletterci bene. <<com’è che fino a ieri mi hai stressato la vita facendo sembrare come fossi l’unico essere umano nel raggio di mille miglia che potesse lavorare nel locale e adesso non fai una piega al sentire che mancherò per una settimana?>>.
    <<perché la salute prima di tutto. In due parole credo io: quella di Dio e quella dei dottori. Entrambe le ascolto, le accetto senza batter ciglio e metto in atto i loro suggerimenti il più scrupolosamente possibile. Per cui, se il medico ha detto una settimana, vuol dire che effettivamente ti serve una settimana ed io, povero mortale, dovrò rassegnarmi a stare senza te…>>.
    <<hai sempre la Licht…>>, ghigno io, e lui: <<ma smettila! Comunque mi raccomando, fai la brava, okay? Appena ho due minuti passo. A proposito, che diavolo di numero è questo?>>.
    <<di Marissa, la ragazza che abita sul mio pianerottolo… e che mi sta aiutando a sopravvivere in queste difficili condizioni…>>.
    <<e il tuo cellulare?>>.
    <<l’ho perso>>.
    <<ah, santo cielo. Devo ancora riuscire a capire dove accidenti stai con la testa, quando ti succedono certe cose>>.
    <<meglio che tu non sappia. Ciao Alex>>.
    <<ciao, tesoro, riguardati>>.
    Chiudo e restituisco il telefono a Marissa, che mi passa i biscotti appena modificati con il cioccolato liquido e le mandorle sbriciolate. <<spero tu non abbia intenzione di trattarmi sempre così, durante questa settimana… altrimenti rientrerò al lavoro che non riuscirò a fare nemmeno un passo, e non certo per la caviglia!>>.
    <<ma dai, mangia piuttosto, che sei pallida>>, mi fa notare lei, mordendo il biscotto. <<non avrai anche l’influenza, no?>>.
    <<macché, ma lascia stare, è una lunga storia e non ho neppure voglia di raccontarla adesso>>.
    <<e io non avrei comunque il tempo di sentirla. Perché devo scappare altrimenti mia madre mi denuncia come dispersa… Ma come te la cavi per il pranzo?>>.
    <<pure il pranzo? Ancora? Tesoro ma se continuo così mi riporteranno al pronto soccorso per indigestione! Basta, così sono apposto fino a stasera! E poi comunque non è che sia una povera zoppetta, ce la faccio a camminare, quindi stai tranquilla!>>
    <<be’, se lo dici tu… ci vediamo stasera allora, okay? >>.
    <<va bene tesoro, grazie mille e scusa per il disturbo…>>.
    <<figurati, è un piacere. A dopo!>>.
    <<a dopo…>>. Mi sdraio di nuovo sul divano, afferro il telecomando e faccio zapping… ah, che palle. Mai niente di buono. O talk-show triti e ritriti, o televendite di asciuga insalata e attrezzi per rimodellare gli addominali, o pubblicità, o…
    Oh, cazzarola.
    I canali musicali vanno assolutamente aboliti dal mio televisore. Sì. Da oggi, subito. Altrimenti mi gioco l’ultimo neurone rimasto intero.
    Il video di “World behind my wall”. Era l’ultima cosa che potessi desiderare di vedere in questo momento. Svito il flacone degli antidolorifici e ne mando giù un paio, così, senz’acqua, sperando che mi rincoglioniscano quanto basta a non pensarci, se non a rimuovere del tutto.
    Ancora non ce la faccio, a pensare a stanotte. Mi sembra di aver vissuto un incubo da cui poi mi sono svegliata dolorante e incazzata, ma niente di più. Non dev’essere niente di più, sennò do i numeri sul serio.
    Contro la mia stessa volontà, resto a guardare il videoclip fino alla fine, e mi sforzo ancora di credere che il ragazzo sorridente in quelle immagini non sia lo stesso tizio di ieri sera. Ma non è così facile, e con le pillole che cominciano a fare effetto realtà e fantasia si confondono ancora di più, mandandomi in uno stato catatonico a metà tra depressione totale e blackout della coscienza.
    Mi sa che oltre ad un buon ortopedico mi servirà anche un bravo psichiatra. Appena mi rimetto in piedi vado a fissare l’appuntamento per un colloquio… sperando che non sia lui a tentare il suicidio dopo aver sentito la mia patetica storia.
    Il trillo del campanello mi riscuote dal torpore maligno in cui sono piombata grazie a quelle stramaledette medicine. Ma chi diavolo può essere a quest’ora… Marissa non credo, perché ha detto che passa stasera. L’affitto l’ho pagato la settimana scorsa, quindi non può essere nemmeno il signor Jakobsson. Alex? Nooo, lui starà dando di matto su e giù al locale, soprattutto ora che gli ho detto che dovrà fare a meno di me per una settimana.
    Sarà qualcuno che ha sbagliato piano, come minimo. Se magari fosse un fattorino delle consegne a domicilio non mi spiacerebbe, perché avrei una certa fame ma voglia di cucinare saltami addosso… come si dice dalle mie parti.
    E insistono pure… mah, tanto vale andare ad aprire. Basta che non sia qualche venditore di Bibbie porta a porta, perché non penso che riuscirei a sorridere come un ebete mentre quel poveretto malpagato m’illustra tutti i motivi fondamentali per cui dovrei tenere una Bibbia in casa. A stento ricordo tutti e dieci i comandamenti… aspé, quali erano? Ehm… non dire falsa testimonianza… non rubare… non desiderare la roba d’altri… la donna d’altri… santifica le feste… onora il padre e la madre… non pronunciare il nome di Dio invano… aspetta che ora mi perdo una stampella, maledizione… non imprecare c’era? No, non mi pare, quindi lo posso dire, maledizione… non avrai altro Dio all’infuori di me… be’ vabbé, direi che fin qua ci siamo. Non commettere atti impuri… pfffiu, non ne commetto da tanto di quel tempo che nemmeno mi ricordo cosa siano. E sono nove… me ne manca uno. Ma quale cavolo era… mannaggia…
    Apro la porta, e per un attimo rimango sospesa, attonita. E’ come ritrovarsi sul pianerottolo uno tsunami, e tu rimbambita che hai aperto pure.
    Oh, maledizione. Maledizione, maledizione, maledizione. Tanto lo posso dire, non infrango nessun comandamento.
    <<che… diamine ci fai tu qui?>>, più perplessa che arrabbiata in realtà. Ma lo sguardo che incrocio, duro e sarcastico, mi fa saltare i nervi all’istante.
    <<cos’è, una nuova formula di saluto non convenzionale? Carina…>>. Lo guardo entrare in casa mia, senza che io possa fare nulla per oppormi realmente. Il fatto è che sono ancora così sotto shock, che non mi pare possibile che sia… qui.
    <<come hai fatto a trovarmi?>>.
    <<ho fatto qualche chiamata… con questo>>. Infila una mano in tasca, e ne estrae un cellulare… il mio, che solleva a mezz’aria e mi mostra con aria trionfante. <<tieni… ah, già, forse non mi conviene lanciartelo>>, aggiunge, squadrando il tutore e le stampelle. <<che hai fatto alla gamba?>>.
    <<e hai anche la faccia tosta di chiedermelo? Ho fatto che sono andata avanti e indietro come una deficiente, per nulla, tutto ieri sera!>>, sbotto. Ma lui non si lascia scuotere minimamente.
    <<ah, ma davvero? E così, io sarei nulla?>>. Si avvicina a me, puntandomi in faccia uno sguardo di sfida. <<non credevo la pensassi così, dato lo screensaver del tuo cellulare… certo, non posso dire che sia una delle mie pose migliori, ma… fa la sua porca figura>>.
    <<ah sì, “porca” è proprio l’aggettivo esatto>>, osservo io, sprezzante. <<e comunque hai ragione, mi sono sbagliata. Non ho fatto avanti e indietro per nulla, ma per un cretino arrogante che si crede il padrone del mondo e di tutti quelli che lo abitano, e che è convinto che basti un suo sguardo per far cadere le donne ai suoi piedi…>>, continuo, caricando la voce di livore. Mi sento violata, il fatto che abbia sbirciato – e questo è un eufemismo, perché sono sicura che l’abbia rivoltato da cima a fondo- nel mio cellulare mi fa andare fuori di testa. I miei segreti nelle sue mani diventano strali pronti a ferire. Già adesso mi sento come se si fosse appropriato di una parte di me che mai, avrei voluto fargli vedere. E invece se l’è ritrovata servita su un piatto d’argento.
    Ora me lo ricordo, quel comandamento. Non uccidere. Ma se non se ne va immediatamente, non sarò più in grado di rispettarlo.
    <<be’, forse proprio uno sguardo no, ma magari qualcos’altro sì…>>, replica lui, sempre più vicino… deglutisco a stento, ma riesco a fissarlo ancora negli occhi. Se abbasso la guardia adesso sono finita. Ha già acquisito fin troppo potere su di me, con la sua scoperta.
    <<tu dici? Beato te che ne sei tanto convinto. Di certo tu non hai problemi di autostima>>, ribatto io, seria. Lui inarca appena un sopracciglio, senza staccare gli occhi dai miei. <<non è questione di autostima, è la verità. Non è mica colpa mia se le ragazze mi si offrono spontaneamente…>>.
    <<ah, vabbé, capirai. Non siamo affatto tutte così, sai?>>, domando sarcastica, con un sorrisetto.
    <<così come?>>.
    <<hai capito>>.
    <<veramente no. Perché non me lo spieghi, come sono queste ragazze che… sono “così”, come dici tu?>>, chiede lui, allungando una mano a sfiorare una ciocca dei miei capelli. E nonostante tutto, fremo.
    <<così… come piacciono a te. Docili, arrendevoli, delle bamboline insomma>>.
    <<ah sì?>>.
    <<già>>.
    <<e tu invece non sei così?>>.
    <<per niente>>, sbotto, scostando il volto dalle dita che lo stavano cercando. Gli scocco un’occhiata sferzante, di chi si è stancato di giocare. <<e adesso vattene, per favore. Il mio medico ha detto che ho bisogno di riposo, non posso stare troppo tempo in piedi>>.
    <<ma guarda, che coincidenza… il mio medico ha detto la stessa cosa a me>>, fa lui, sardonico. <<quindi, che ne dici se magari adesso andiamo a riposarci… insieme?>>.
    <<preferirei sdraiarmi sui carboni ardenti>>, rispondo, la voce che si fa sempre più aspra. Per tutta risposta mi lancia uno sguardo ammiccante.
    <<potresti sempre provare… non è detto che io sia da meno>>.
    Sbuffo, spazientita. <<tom, davvero, vattene. Non mi va di stare qui a perdere tempo con te. Vai a cercarti qualcun altro da scocciare e levati dalle scatole>>.
    <<mi stai cacciando?>>.
    <<ancora no. Ma se non te ne vai entro due minuti lo farò. E non sarò così gentile, credimi>>.
    Lui scoppia a ridere, una risata tagliente. <<davvero, e che farai? Mi prenderai di peso e mi butterai fuori? O magari mi darai un colpo di quella…>>, fa, accennando alla mia gruccia sinistra. << Sarei proprio curioso di vedere…>>.
    <<io invece no. Vattene>>.
    Sospira, evidentemente ha capito che non ha nulla da guadagnare, con me. <<okay, me ne vado. Piacere di averti conosciuto… com’è che ti chiami?>>.
    <<non sono affari tuoi>>.
    <<naaaah, scherzavo, lo so come ti chiami. Eden, giusto? Che nome strano…>>.
    <<non più della tua presenza qui in casa mia. Fuori dai piedi, adesso>>.
    <<sì, sì, okay, va bene, me ne vado, me ne vado>>. Indietreggia, fino a raggiungere la porta ancora socchiusa.
    <<non dimentichi niente?>>, chiedo ancora io, che già sto ricominciando a respirare. Lui si volta e mi guarda, con aria interrogativa.
    <<il mio cellulare>>, spiego.
    <<ah, giusto>>. Torna sui suoi passi, fa per porgermelo con l’evidente intenzione di prendermi in giro; ma io resto in silenzio, anche quando apre le braccia e le fa ricadere con aria rassegnata, prima di infilarmelo nella tasca dei jeans.
    Ha davvero una grandissima faccia tosta. Troppo, perché il suo sia un atteggiamento lucido, ragionevole. E’ qualcosa di più di prepotenza e istinto… un qualcosa che non riesco a spiegarmi.
    E forse una parte della colpa è da attribuire anche alle sue braccia ancora attorno a me. <<sto ancora aspettando che mi spieghi perché, se pensi tutte quelle cose di me, hai la mia foto sul tuo cellulare…>>.
    <<perché forse non le pensavo, prima di ieri sera>>, ammetto, ed è la prima cosa totalmente sincera che esce dalle mie labbra. Ha perfino un tono diverso, più che di irritazione sa di… delusione? Sì, forse è questo il termine più adatto.
    <<ah, no? E cosa pensavi di me, prima di ieri sera?>>, mi chiede, guardandomi di sottecchi in un modo che… probabilmente se questo fosse stato il primo sguardo che ho incrociato con lui, davvero sarei caduta ai suoi piedi.
    <<che fossi… diverso>>, dico, e una vena di amarezza si apre nel mio tono più basso, scurendolo.
    <<diverso in senso di gay?>>.
    <<no, diverso in senso di uomo, perché è appunto questo che credevo che fossi… invece sei soltanto un ragazzino viziato e arrogante>>, spiego. <<finché non ti ho visto in azione ieri sera mi facevi un certo effetto, non posso negarlo>>.
    <<quindi vorresti dire che adesso non te ne faccio più?>>.
    Assumo l’aria più distaccata che mi riesce. <<per niente>>.
    <<sì, e io ci credo. Vogliamo vedere?>>, domanda col sorrisetto sornione di chi sa già che vincerà. Provo a indietreggiare, ma con le stampelle e il piede gonfio come un pallone da rugby non è per niente facile: muovo appena due passi e lui mi raggiunge in un istante, mi assale l’impulso di usare le grucce come arma per difendermi ma neanche mi avesse letto nella mente me le strappa dalle mani e le getta in un angolo sul pavimento, mentre mi tiene stretta a sé con un braccio passato dietro la schiena. Il calore del suo corpo, il sapore del suo respiro, denso e speziato con una punta d’amaro del tabacco delle sigarette. Sono vicinissimi, di più, praticamente ce li ho addosso. M’inebriano e mi stordiscono, abbattono ogni mio possibile tentativo di resistenza. Con gli occhi fissi sulle sue labbra socchiuse mi lascio issare in braccio, contro il suo petto… mi porta così fino al letto, mi ci adagia sopra e inizia a passare il palmo della sua mano dal mento al seno, sfiorandomi appena la prima volta, poi con intenzione sempre crescente le altre, finché non respiro più.
    <<saresti capace di dirlo adesso, che non ti faccio nessun effetto?>>, insiste, e senza aspettarsi la mia risposta plana a lambirmi le labbra con la punta della lingua. Un tocco morbido, che nasconde bene il gelo tagliente delle parole che proferisce. Slaccia uno ad uno i bottoni della mia camicetta, abbassa l’intrico di pizzo e raso del reggiseno e scende giù, a catturare una delle gemme rosate nella sua bocca.
    Un lampo di piacere devastante mi attraversa l’anima, i pensieri e le emozioni da cima a fondo. Li straccia in due come un sottilissimo velo, aprendosi la via per raggiungere l’oblio e trascinarmi con sé in esso.
    Gioca ancora col mio seno, mentre le sue mani continuano la loro discesa sul mio corpo. Dopo il tintinnio del bottone a pressione dei jeans, avverto un freddo improvviso, intenso… e subito dopo un calore incandescente. Mi allarga le gambe e v’insinua in mezzo le dita, accarezzando l’interno di una delle cosce… la sento scivolare come seta sulla mia pelle nuda.
    Il sussulto che mi fa inarcare e aderire a lui ancora completamente vestito gli scatena uno sbuffo, una risata di soddisfazione soffocata dall’impatto contro il mio capezzolo inturgidito nella sua bocca, sulla sua lingua. A me invece il tocco di una delle sue dita che stuzzica la piccola sfera nervosa posta nel centro pulsante e umido del mio essere scatena una serie di fitte interminabili che mi percorrono dalla gola al ventre, intersecandosi e accendendosi ad ogni nuovo attacco.
    <<dillo adesso, che non ti faccio nessun effetto… anzi, aspetta ancora un secondo>>. Da un morso veloce all’altro seno trattenendone poi la punta rovente tra le labbra mentre la sfila di bocca e s’abbassa ancora, facendomi fremere quando sento il suo respiro irrorare la mia carne un secondo. Mi libera del tutore e poi mi sfila del tutto i jeans già abbassati.
    Il pensiero che stia guardando nella piena luce del giorno qualcosa di me che non ho mai mostrato a nessuno eccetto il mio ginecologo mi riempie di vergogna. Il sangue mi sale alle guance, per soltanto per qualche secondo, il tempo che riprenda a sfregare con la punta del polpastrello il mio clitoride incendiandomi i sensi e costringendomi a piegare indietro le braccia per artigliarmi ai cuscini. Ma nulla sembra in grado di trattenermi mentre il fiume impetuoso del piacere nudo e crudo mi trascina lontana da me stessa e dalla razionalità.
    Le dita improvvisamente diventano due, poi cinque, poi dieci. Mi apre del tutto per portare quanto più possibile allo scoperto e appena percepisco un contatto vellutato e bagnato, capisco che è non è più con le mani, che ha intenzioni di farmi impazzire… Mi lecca piano, con una precisione e una delicatezza così misurate, pacate, che potrei quasi scambiarle per tenerezza, e non sono più padrona delle mie reazioni… una volta sfuggito il primo gemito, per tutti quelli che seguono è molto più semplice venire fuori dalla mia gola. Ansimo e tremo, ho la pelle e tutto quello che c’è sotto in fiamme e quando le carezze morbide e insinuanti della sua lingua diventano un bacio ben più affamato e rapace che mi sonda e mi strazia le viscere, un orgasmo inevitabile e quasi doloroso mi cattura tra le sue grinfie, spezzandomi il respiro e privandomi perfino della forza di gridare.
    Quando riapro gli occhi, incontro i suoi, pieni di beffarda soddisfazione e pungente sarcasmo. <<dillo adesso>>, mi mormora, in tono tagliente. <<dillo adesso, che non ti faccio nessun effetto, se ne sei capace>>.
    Non rispondo, lame di sale iniziano a trafiggermi le sclere e appena volto la testa per il terrore che lui possa accorgersene toglie la felpa, sfila la maglia e slaccia i jeans. Si sdraia su di me e senza dir nulla, senza nemmeno cercare il mio sguardo mi penetra. Lo sento, durissimo e levigato dentro di me, scolpito e caldo sopra; ma non sento altro oltre a un dolore che mi sboccia nel petto diffondendosi ovunque, perfino nelle dita e nella mente, come un siero nero che cancella e offusca le sensazioni che arrivano invece dall’intreccio dei nostri corpi. Ogni sua spinta, ogni affondo del suo membro mi giunge sfocata come se non avvenissero in me.
    Ed è adesso, che le sue mani, le sue labbra e il suo sguardo non mi toccano più, che mi piomba addosso l’amara verità. Mi sta scopando. Non sono niente di più che una scopata, per lui. Al piacere che sta ottenendo da me, e che qualunque altra donna potrebbe dargli, si aggiunge quello della piccola rivincita per quello ch’è successo ieri sera e quello che gli ho detto oggi, e chiaramente quello che deriva dall’avermi sbugiardata nel più evidente dei modi.
    Il veleno nero che mi spegne il cuore sta cominciando a fare effetto. E quello denso e cristallino che lui mi riversa dentro mentre raggiunge l’orgasmo non serve da antidoto; anzi. S’irrigidisce e trema contro di me, ma questo non gl’impedisce di ridere, di una risata sardonica. Si ritrae, tira su i jeans e i boxer e li abbottona, infila la maglia e raccoglie la felpa e senza dire una parola, senza un cenno di saluto, mi abbandona e se ne va, così in fretta da potermi quasi illudere di aver soltanto sognato tutto: ma le sensazioni che impregnano ancora il mio sesso, come e più dei miei stessi umori e del suo seme, non mi permettono di cullare a lungo quest’illusione.
    Esplodo. La mia frustrazione, la mia rabbia, tutto il mio essere si ribella all’effetto del veleno e lo risputa fuori. Tiro via dal letto le lenzuola con una tale forza da strapparle e le getto sul pavimento, dimentica della caviglia infortunata prendo a calci i miei indumenti e quando un dolore fisico, cocente si scontra con quello morale, cado in ginocchio e mi tengo tra le braccia, annullata in tutto e per tutto, incapace anche di piangere.
    Resto così un tempo che mi sembra infinito, finché il freddo non intorpidisce ogni angolo di me; allora, a stento, vacillante, mi rialzo e vado a ficcarmi sotto la doccia bollente. Vorrei potermi strappare di dosso la pelle, pur di mandare via il suo odore, il ricordo del suo tocco, il piacere che mi ha dato nonostante tutto. Ma appena abbasso le palpebre mi sembra di risentire la sua bocca addosso… una sensazione fortissima, mi obbliga a sospirare e voltarmi con la schiena alle piastrelle, in cerca di refrigerio.
    Non funziona. Stacco il microfono della doccia, recupero la spugna e mi lavo più accuratamente, non oso toccarmi nemmeno con le mie stesse mani tra le cosce, per paura di quello che sento ancora. L’eco di una fame solo temporaneamente appagata, ma per niente sazia, che presto o tardi tornerà a ruggire.
    Lo odio. Lo odio perché sapeva che non avrei mai potuto dirgli di no. Lo odio perché ha avvelenato, calpestato e guardato sanguinare l’amore che gli portavo finendolo con una risata che mi risuona ancora nelle orecchie soffocando ogni altro rumore. Lo odio perché invece il mio corpo adesso non riesce a non desiderarlo, a volerlo riavere dentro, mentre il mio cuore vorrebbe vederlo sparire dalla faccia della Terra.
    Basta. Non voglio più pensare. Perfino le mie stesse riflessioni m’incutono timore in questo momento, perché non sono lucide. Potrei pensare qualsiasi cosa e poi non potrei più far finta di niente.
    Non è vero che lo odio. Se così fosse non soffrirei.
    Appena rimetto piede in soggiorno, suonano di nuovo al campanello… non ho la forza materiale di sorridere, parlare e ascoltare Marissa, adesso. Ma devo almeno darle un segno di vita. Altrimenti si spaventa.
    Ma quando apro, sono io a prendermi un colpo. E’ Bill, sì, lui, Bill Kaulitz. Anche se è imbacuccato in diversi strati di sciarpe, berretti e lenti nere, lo riconosco immediatamente dalla sua figura e dal suo portamento.
    <<cosa… posso fare per lei?>>, chiedo, dimentica di indossare solo un accappatoio. E lui, gentile e mesto: <<posso entrare?>>.
    <<dipende. Non faccio entrare sconosciuti in casa mia>>.
    Non per gioco, non per sfida lui sfila la sciarpa, abbassa il cappuccio della felpa e libera i corti capelli corvini. <<ora… mi riconosci?>>, domanda timidamente, rigirandosi la lunga lingua di stoffa grigio scuro tra le mani nervose, inanellate.
    <<sì. Entra, dai>>. Chiudo la porta e lo vedo avanzare incerto. <<siediti. Posso… offrirti qualcosa?>>.
    <<niente, grazie>>.
    <<allora… mi concedi due minuti per vestirmi?>>.
    <<oh, sì, ma naturalmente>>.
    <<un secondo>>. Zoppicando, torno in bagno e infilo velocemente la biancheria, una tuta e avvolgo i capelli gocciolanti in un asciugamano. Torno in soggiorno e lo trovo che fissa, con aria assente, il groviglio di lenzuola e coperte ancora sul pavimento, come i resti di un’offerta sacrificale a qualche dio senza cuore che non ascolta preghiere.
    <<lui… ti ha deluso, vero?>>, domanda, guardandomi. Impossibile nascondere la mia espressione afflitta, davanti a questi occhi così tristi e innocenti, allungati da un filo nero di matita.
    Due lunghe lacrime mi solcano gli zigomi, mentre risistemo il tutore attorno alla gamba. <<no. Cioè… un po’. Forse>>.
    Bill sospira, alza le spalle fasciate nel cappotto nero sottile. <<lui… è fatto così>>, ammette, ma sembra non crederci neanche lui a quello che dice. <<quello che vuole se lo prende, e non si guarda indietro>>.
    <<lo sapevo>>.
    <<ma non ci volevi credere>>.
    Silenzio. <<no>>, dico semplicemente, annientata. <<non ci volevo credere>>.
    <<eden… ti chiami Eden, giusto?>>.
    <<sì>>.
    <<ascolta, Eden… io non so cosa deciderai di fare adesso… e non so nemmeno cosa deciderà lui… e non voglio entrare in questioni che non mi riguardano. Però…>>.
    <<però?>>.
    <<sembri una brava ragazza. Mi spiace che adesso sia toccato a te>>.
    Alzo le spalle, fisso ancora il mucchio confuso di bianco e blu sul pavimento. <<non è la fine del mondo. L’hai detto tu che non si guarda indietro, no? Quindi credo che non ci sia più niente da decidere>>.
    <<già>>, fa lui, guardandosi le mani pallide solcate dalle vene azzurrine e dai reticoli dei tatuaggi. <<be’, allora… io andrei>>.
    <<d’accordo>>. Ci alziamo entrambi, io sostenuta dalle stampelle, lui da chissà quale oscura mesta forza dentro di sé. E’ strano che si sia preso tanta pena per una delle ragazze sedotte e abbandonate da suo fratello. Se lo fa con tutte, avrà il suo bel da fare, ogni santo giorno, il piccolo Bill.
    <<senti… se ti va… mi piacerebbe uscire con te, qualche volta. Magari quando la gamba sarà guarita… non è una frattura, vero?>>.
    <<oh, no, solo una contusione. Una settimana di riposo e tornerà nuova>>.
    <<allora, magari allora…>>.
    Ho un istante di esitazione, che non mi spiego nemmeno io. Sono troppo sconvolta, incredula, ferita. Non connetto più col presente. <<io…>>.
    <<eden… se ti va, ho detto. Non vorrei che doverti vergognarti di farti vedere in giro con me>>.
    <<ma no, no! E’ solo che…>>.
    <<che?>>, m’incalza, infilando le mani nelle tasche dopo aver rimesso la sciarpa.
    <<niente. Magari quando la gamba sarà guarita>>.
    <<okay… allora… ci si vede>>.
    <<d’accordo. Buona serata… e non ti arrabbiare, se non ti chiedo di salutarmi tuo fratello>>, sbotto, e percepisco il suo sorriso dietro lo schermo grigio e nero di sciarpa e lenti. Ma è amaro, me ne accorgo anche da qui.
    <<ciao>>. E se ne va. Richiudo ancora la porta, con estrema lentezza. E con estrema lentezza vado a sdraiarmi sul letto.
    Dormire. Dormire. Dormire. Per non pensare.
    Dormire. Dormire. Per dimenticare.
    Dormire… pregando di non sognare.
    Non reggerei altri incubi, stasera.
     
    Top
    .
  4.  
    .
    Avatar

    Junior Member

    Group
    Member
    Posts
    12

    Status
    Dead
    Scusate il ritardo. Ecco il nuovo capitolo!




    Capitolo 3


    La settimana di riposo che avrebbe dovuto portarmi una caviglia risanata mi porta invece un animo devastato.
    Ogni giorno la stessa maledetta storia. Lui che viene, m’impania nella colla del suo sarcasmo feroce e della sua cattiveria, mi scopa e se ne va senza più dire niente; e suo fratello che si precipita a leccarmi le ferite del cuore, a parlare con me per ore e ore, di tutto, versando su di esse un balsamo dolce che, seppure non le risana nemmeno lontanamente, affievolisce il dolore abbastanza da farmi stringere i denti e tirare avanti, fino alla prossima scopata.
    Non capisco perché faccia tutto questo per me. Non mi conosce neppure… ma è come se mi tenesse sotto controllo, come se volesse misurare su di me quanto sa essere distaccato, gelido e crudele suo fratello con una donna.
    Non riesco a negarmi. Non riesco a non aprire la porta. Non riesco a non… tremare, e sentire, e venire, mentre mi tocca… cazzo. Vorrei avere il coraggio di scappare via, ma qualcosa di stupido dentro di me mi tiene ancorata qui, a far Dio Solo Sa cosa.
    Non posso neppure nascondermi dietro una giustificazione sensata, perché non c’è nulla che mi trattenga qui a parte lui. E’ come se stessi ancora sperando di vedere nei suoi occhi uno sprazzo del suo cuore, della sua anima. Nonostante tutto non riesco a credere che quello sia davvero lui.
    E’ come se stessi ancora aspettando che il vero Tom si manifesti, che venga fuori da quell’involucro di ghiaccio e prepotenza.
    E’ come se avessi dato del tutto fuori di senno, e stessi cercando una scusa per continuare a farmi scopare da lui senza provare umiliazione e sofferenza, quella che deriva dal sentirmi sua complice. Perché se avessi ancora un po’ di dignità sarei andata via subito, dopo la prima volta.
    E invece sono ancora qui. E sono certa che se sapessi che servirebbe a farmelo vedere, mi getterei in ginocchio ai suoi piedi, glieli laverei con le mie lacrime e glieli asciugherei coi miei capelli come la prostituta del vangelo, per dimenticare questa settimana appena trascorsa, trovare perdono in lui e in me stessa e ricominciare con l’anima pulita da tutte queste macchie che vi sento impresse. Nulla di religioso, per carità; non mi sento così male per aver infranto il sesto comandamento, per tornare a quel famoso discorso… sto male perché l’ho infranto nel peggiore dei modi, senza un senso, seguendo non il cuore ma per assecondare i miei più bassi istinti.
    E non riesco a fare a meno di lasciarmi consolare da Bill.
    Vorrei non averli mai incontrati. Mai.
    <<sei silenziosa. A cosa pensi?>>, mi domanda lui, inclinando il volto, pallido nella penombra dell’abitacolo che nemmeno la luce dei lampioni fuori riesce a scalfire più di tanto. Colpa dei finestrini oscurati, probabilmente.
    <<io? A nulla di che. Sono stata bene con te>>.
    <<anch’io>>.
    Ferma l’auto, mi prende la mano. <<eden, sappi che qualunque cosa ti serva io ci sono sempre>>.
    <<grazie>>. Mi allungo a sfiorargli la guancia con un bacio amichevole, quasi fraterno, da cui non si schermisce. Anzi. Appena mi stacco si volta e mi scosta una ciocca di capelli dalla fronte, infilandola dietro il mio orecchio.
    <<mi raccomando>>.
    <<tranquillo. Buonanotte>>. Scendo dall’auto e intanto che lui si allontana frugo nella borsa alla ricerca delle chiavi. Mi avvio verso il portone, apro ed entro, salendo con cautela ogni gradino. Non fa più male, è vero, ma meglio non fare sforzi inutile. Tanto non mi insegue nessuno.
    Una specie di allarme suona nella mia mente a questo pensiero, è come sentir sfrecciare un’Harley nel pieno silenzio. Involontariamente il cuore schizza in gola, involontariamente si alza lo sguardo…
    Involontariamente s’incrociano due occhi dall’espressione assente e durissima insieme. Deglutisco a stento, mentre colmo la distanza tra il pianerottolo dove mi trovo adesso e quello del mio piano, una misera rampa di scale.
    Ora come ora, non basterebbe nemmeno quella che intercorre tra Paradiso e Inferno, per farmi sentire al sicuro. Esercito uno sforzo violentissimo sui miei nervi per non farli saltare, né mollare.
    <<buonasera>>, esordisce, il tono affilato come una lama.
    <<buonasera>>, rispondo io seccamente, salendo gli ultimi gradini uno a uno, senza staccare un istante gli occhi dai suoi. Voglio dimostrargli che non ho paura di lui.
    <<che c’è, io non ti basto, che hai bisogno di fartela anche con mio fratello?>>, sbotta, chiarendo immediatamente. <<se vuoi possiamo aumentare la nostra dose giornaliera… così non ti servirà più>>.
    <<e chi ti dice che magari è di te che potrei non avere bisogno?>>, replico io, un mezzo sorriso metallico ad incurvarmi le labbra. Ormai sono in cima, a pochi passi da lui. Serro le braccia al petto e mi avvicino, con aria sicura.
    Quando non siamo a letto, sono sempre in grado di tenergli testa. E sono più che certa che almeno un paio di strali dei miei riescono a scalfirlo.
    Il problema è quando mi tocca… perché non riesco a non permetterglielo. Lo voglio anch’io. Perché spero sempre che da un attimo all’altro si desti da questa specie d’incantesimo di gelo che gli ha stretto il cuore in una morsa di ghiaccio e si accorga di me. E il modo in cui mi ha baciata ieri… mi ha lasciato sentire un vago calore, come se quello strato di brina avesse cominciato ad essere intaccato.
    Peccato sia durato un secondo scarso. Ha indugiato con le sue labbra sulle mie e mi ha fatto intravedere uno stralcio di notte stellata, un buio dolce e sereno illuminato dall’argento dei suoi piercing.
    Finché non è sceso di nuovo il freddo, tra di noi. <<e poi, anche se fosse, non sarebbero fatti tuoi>>, continuo, cattiva.
    Lui fa uno sbuffo, una specie di risata maligna. <<lo sono eccome invece…>>.
    Mi avvicino fissandolo con intenzione, invado il suo spazio vitale. <<che c’è,Tom? Per caso sei geloso?>>.
    <<in realtà sono preoccupato. Sai, mio fratello è molto sensibile… se viene a trovarti tutti i santi maledetti giorni che Dio manda in terra, probabilmente è perché gli piaci davvero… e se sapesse che scopi con me ci resterebbe molto male, anche perché sono un rivale che non teme confronti, in quel campo>>, dichiara, trionfante. <<quindi non lo devi più vedere>>.
    <<psssh, pensi di potermi dire cosa posso o non posso fare? Povero illuso… se proprio sei così in pena per Bill, potresti smettere di vedermi tu…>>, replico immediatamente. <<in fondo, io per te sono solo una scopata, lui invece ci tiene a me>>.
    <<questo mai>>, soffia, come un felino provocato. Lo sguardo s’indurisce ancora di più e soltanto adesso mi rendo conto di quanto sia poco limpido… come se ci fosse un velo, steso sulle iridi. <<ma dai? E perché mai?>>, insisto.
    <<perché tu sei mia>>.
    Una semplice frase che hai il potere di mandarmi in pezzi. Detta con un altro tono, mi avrebbe fatto venire le lacrime agli occhi dalla gioia.
    Ma la voce che sembra provenire da un altro pianeta, oscuro e sterile, mi fa tremare. Non è la sua… è come se la rabbia che la impregna la rendesse poco più di un ringhio ferino da animale in gabbia.
    Una gabbia di dipendenza e autodistruzione, intuisco improvvisamente tra le pieghe confuse dei miei pensieri spezzati. E la voragine che mi si spalanca dentro m’inghiotte affondandomi nel magma nero e denso, soffocante di questa consapevolezza.
    No… non è possibile. Non voglio, non posso crederci. Tom non può… non può essere… non…
    Ma la voce nella mia testa, acuta e penetrante tanto da coprire ogni altro rumore, mi urla contro che ho ragione. Ci sono arrivata, finalmente.
    Tuttavia, è un pensiero così repentino e doloroso che viene spazzato via dall’immediato, messo da parte in attesa di essere dipanato a mente fredda.
    Ora devo difendermi.
    <<tua?>>. Scoppio a ridere, cercando di controllarmi ma la nota isterica nella mia voce è più forte della mia volontà esausta. <<non credo proprio… forse potrai avermi in tuo potere per qualche ora, ogni tanto… un potere circoscritto al mio corpo, tra l’altro. Ma non entrerai mai nella mia testa. Mai. Non è così facile come con il resto>>.
    Mi fissa, penetrando i miei occhi con la carica dirompente del bruno incendiario dei suoi, improvvisamente vivi, improvvisamente rifioriti. Ma la luce aspra, dura che vi brilla sul fondo non annuncia nulla di buono.
    Mi afferra per le scapole, spingendo le dita, le unghie a fondo nella carne tenera sopra l’osso: sembra stia facendo di tutto per contraddirmi, per dimostrarmi che lui in me può entrare in quanti modi vuole, io non glielo impedirò comunque.
    Potrei gridare, e richiamare l’attenzione di Marissa o di sua madre… ma ancora non riesco a odiarlo tanto gelidamente, tanto lucidamente da incasinargli la vita e darlo in pasto alle prime pagine dei giornali.
    No. Ancora no.
    Si china sul mio orecchio, e un violento brivido mi scuote mio malgrado. Dargliele tutte vinte è così semplice… perché appena mi tocca non capisco, non percepisco più nulla oltre a lui. Mi riempie del suo calore spento così come della rabbia frustrata, della devastazione del suo essere simile a quella che un veleno tossico possa operare su un lussureggiante, selvaggio giardino incantato.
    E io non posso far altro che stare a guardare. Se soltanto mi parlasse… starei ad ascoltarlo per ore. Lo terrei tra le mie braccia, sul mio seno e lo cullerei come un bambino, cercando di alleviare il suo dolore confuso, il suo terribile segreto appena intuibile sotto questa corazza.
    Ma le parole tra noi sanno essere solo lame taglienti. Mezzi per dividere e allontanare, non avvicinare. <<questo lo vedremo>>, mi sussurra a metà tra minaccioso e suadente, un tono che mi fa annodare lo stomaco tra furia e desiderio. Vorrei poter essere io in questo momento a metterlo spalle al muro, entrargli dentro, fargli del male più duro e brutale di quello fisico: aprirgli una ferita nell’anima, che sanguini e arda quando pensi a me.
    Ma a stento riesco a respirare; e quando passa sul bordo il mio orecchio le labbra appena socchiuse, calde e bagnate, mi abbandono al suo tepore, all’ingannevole dolcezza di miele dal fondo amaro del suo tocco. <<sono sicuro che… potrei infilarti dentro l’intera mano senza difficoltà, per quanto sei eccitata adesso… vogliamo provare?>>.
    <<sei uno stronzo>>, sbotto, masticando l’ira per risputargliela contro. Ma lui non fa una piega: alza le spalle e mi fissa con ancora più intenzione.
    <<lo so. Però è vero>>.
    Non gli rispondo, non voglio dargli anche questa soddisfazione, concedergli anche questa vittoria. Ma il modo in cui tremo appena sfiora la tasca dei miei jeans alla ricerca delle chiavi è più eloquente di qualsiasi replica a voce.
    <<fermo. Non ti voglio in casa mia>>, riesco a ringhiare, furiosa.
    <<vuoi che ti scopi qui sulla porta? Davanti a chiunque si trovi a passare?>>.
    Silenzio.
    <<sai che lo farò. Tanto saranno solo cazzi tuoi, è te che sbatteranno fuori di casa>>.
    <<ti odio>>, soffio in un filo di voce salato di pianto.
    <<e mi vuoi. Ti senti viva solo quando ti sto dentro, anche se non ti muovi. Non pensare che io non lo senta, come gemi, e fremi, e sospiri… come affondi le unghie nei cuscini quando stai per venire… e come mi inondi di umori roventi la bocca mentre lo fai…>>.
    <<basta…>>. Ed è una supplica, disperata e dolente, con cui spero di lambire il suo cuore perché smetta di tormentarmi. Il suo corpo contro il mio è teso come un arco da cui sta per scoccare lo strale che mi trafiggerà non appena avremo attraversato la soglia.
    <<e tu, tu non mi senti? Sei diventata forse insensibile, che non riesci a sentire come non vedo l’ora di sbatterti su quel letto e entrarti dentro? Non lo senti? E’ così duro che sembra stia per esplodere… ed è dentro di te, tra le tue gambe, che vuole farlo… voglio riempirti così tanto di me da doverti costringere a dire: “io sono te”… >>. Stiamo entrambi ansimando, come se stessimo già facendo sesso per davvero. <<riempirti la testa, il cuore, la bocca… qui dentro…>>. E’ un istante: fulmineo, fa scivolare la mano tra le mie cosce e mi stringe tra le sue dita. Nonostante lo spesso denim lo sento come fossi completamente nuda. Anzi, vorrei soltanto che aprisse la zip e s’insinuasse dentro, per sentirlo ancora di più.
    E lo fa davvero. Slaccia il bottone e scivola sotto l’orlo degli slip, si addentra nel luogo di me che ormai gli è più familiare. Mi strappa un sospiro strozzato e io reclino la testa contro la porta, annientata. <<ed è esattamente così che andrà. Orgasmo dopo orgasmo, tu mi apparterrai sempre di più finché io non sarò per te l’aria che respiri>>.
    <<sei un fottuto pazzo…>>, mi sforzo di replicare; e lui va ancora più a fondo, senza staccare gli occhi dai miei.
    <<sì. E lo sarai presto anche tu>>. Sfila via la mano e la passa ostentatamente sul davanti dei calzoni, così gonfio e tirato che sembra davvero manca poco che esploda. <<ah, e non ti preoccupare per me. A me una sega basterà… sarai tu a non poterti accontentare delle tue dita, perché sono le mie che vuoi>>.
    Come niente fosse avvenuto, gira sui tacchi e se ne va lasciandomi sola col mio incendio di anima e sensi. E un buio nero mi sommerge, denso e profondo, salmastro e infido come l’abisso.
     
    Top
    .
  5. Hime .
     
    .

    User deleted


    bella bella bella!!! continua :)
     
    Top
    .
4 replies since 22/2/2012, 19:24   95 views
  Share  
.