Cosa hai detto che sei...?!?

...incinta. Tomi...[il mio primo,vero successo!]

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  1. elekna
     
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    è stupenda....continua!!!
     
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  2. °°Vanilla°°
     
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    Vabbè, dai, oggi sono iperproduttiva XD uahuahuah...
    Questo cap lo dedico a quelle che stanno continuando a commentare (non importa quante siete, basta che ci siate! GRAZIE!)
    ......e lo dedico anche ad un meraviglioso 19enne che della lingua italiana non capisce un tubo XD

    Erin sedette sul letto, nella sua stanza. Fuori la luna era offuscata dalle luci cittadine, e non brillava neanche una stella.
    Per l’ennesima volta si alzò, si pose davanti allo specchio, si mise di profilo e si alzò la maglietta…ehi, già si vede…che carino. Ecco perché ieri sera Tom non poteva fare a meno di guardare. Si vede un pochettino…ma poco…
    S accarezzò piano il ventre. Erika? Mah, può darsi…e se è un maschio? Di certo non Spike…sorrise fra sé e si sistemò la maglietta. Va bene…ora basta pensarci.
    Si sedette di nuovo sul letto e tirò fuori dal cassetto del comodino il diario. Il vecchio diario…quanto tempo era che non ci scriveva? Forse secoli…solo da qualche settimana aveva ricominciato. Non poteva tenersi tutto dentro. Lesse le ultime pagine che aveva scritto e prese la penna che vi aveva infilato in mezzo, per ricominciare a scrivere. Forse scriveva di Tom. Tom…quel ragazzo così duro, ma così fragile e stupido. Che sotto quella rigida facciata da bulletto, figo e pervertito nasconde qualcosa di meno superficiale. Un cuore? Potrebbe essere. Ma di quelli fatti anche per amare? Anche quello era possibile.
    In quel momento, dalla finestra provenne uno strano rumore. Uno strano suono di schiocchi, tonfi, come di qualcosa che si incrina. Sarò un animale notturno, pensò lei, e si alzò dal letto, mettendo via il diario; oh, ma cosa dici, non può essere un animale notturno. In città, poi! Si accostò con cautela alla finestra.
    Beh, da lì non è che vedesse molto, in tutto quel buio. Di sicuro non era un gatto. No, no, qualcosa di molto più grande…che si muoveva lentamente e a fatica. Come un grosso bradipo con un cappellino in testa e dei jeans troppo larghi per potersi arrampicare…che bradipo buffo. Ma forse non era un bradipo…
    “Tom! Cristo, cosa stai combinando?”
    “Ti raggiungo…” ansimò il ragazzo, emettendo gemiti continui per lo sforzo.
    “Mio padre ti ammazza se ti ritrova qui…scendi subito!”
    “Neanche morto, dopo tutta la fatica che ho fatto per venire fin qui!”
    “Cosa sei venuto a fare?”
    “Devo parlarti, Erin…”
    “Potevi anche telefonarmi! Ce l’hai il mio numero, no?”
    “Sì, ma non era abbastanza romantico…” a quelle parole le guance della ragazza probabilmente avvamparono. Lei fece qualche passo indietro, per non far notare il suo disagio “Trovi che sia una cosa romantica arrampicarsi su per la grondaia?” disse stizzita, battendo aritmicamente un piede a terra, per far passare il nervosismo che andava crescendo. Ma perse il controllo quando da fuori della finestra provenne la voce flebile di Tom, stanco morto “…sì”.
    Ok, basta, era troppo. Ma come si può, Dio buono, arrampicarsi su per la grondaia di un condominio? Chiunque vedendolo l’avrebbe scambiato per un ladro…ringraziò il cielo che in quel tratto di strada non ci fossero lampioni, permettendo a Tom di rimanere in ombra.
    Velocemente, quando vide la mano di Tom sbucare sul davanzale, corse alla finestra e lo afferrò per la felpa, tirandolo dentro. “Scemo, scemo, scemo…” iniziò a inveire lei, sollevandolo e guardandolo negli occhi. Tom richiamò per l’ennesima volta ed involontariamente il suo sorriso ebete: era così carina quando si arrabbiava…le guance le diventavano rosse e gli occhi di ghiaccio iniziavano a brillarle. Per non dire che si agitava e gesticolava come una matta “Ma perché devi fare ste cose? Mio padre è di sotto, e se sale e ti becca qui…”
    “Chissene” scandì il ragazzo con un cenno del capo. Per l’esattezza, non me ne importa un fico secco, bella.
    “Come sarebbe a dire? E come speri di andartene, calandoti dalla finestra come una scimmia?” sbottò lei fra l’ira e il divertimento che suscitava quella scena. Tom la guardava con un mezzo sorriso, di quelli ebeti, strani, che solo lui era in grado di fare. Non che questo sia un pregio.
    “Sei bellissima…” disse piano, scostandole i capelli dal viso. Gli occhi di lei si spalancarono “Tom…cosa stai dicendo?”
    “Che sei bellissima.”
    “Perché tutto ad un tratto così dolce? “
    “Senti Erin…” Tom le posò le mani sui fianchi. La guardava in un modo così…ebete? Sì, ebete era l’aggettivo adatto…”So che manca molto…”
    “Ah! Ti riferisci a…”
    “Già.”
    “E…quindi?”
    “Dubito che io ci sarò quando nascerà.” Erin non riusciva a capire. Dove stava il senso in quello che stava dicendo? E come aveva potuto salire fin lì con la caviglia ridotta così male? Tom, ma che ti è successo? Un alieno ti si è infiltrato nel cervello mentre dormivi? “Lo so che non ci sarai” rispose lei. Voltò la testa verso lo specchio; nel riflesso di loro due, così vicini, ebbe la forza di guardare, di nuovo, solo il suo ventre. Ed era molto strano vederlo così vicino a sé. A suo figlio. Come lo era stato l’altra sera.
    Tom le pose una mano sulla pancia, facendola sussultare. “Io voglio sapere quando accadrà. Voglio che mi chiami, hai capito?” disse lui, cercando di scandire le parole nella maniera più calma e controllata possibile. Lei finalmente scostò lo sguardo dallo specchio, e lo guardò negli occhi. “Come lo chiamo se è maschio? Ti prego, non Spike…”
    “Non lo so. Non ci ho pensato” rimasero pensierosi, in silenzio, quando Tom si voltò improvvisamente verso di lei “Dagli il mio nome” suggerì entusiasta “Tanto non mi conoscerà mai…”
    “Mmmh…Thomas! Potrebbe essere un’idea…” rispose lei, facendosi pensierosa. Poi sorrise “Non importa…manca tanto di quel tempo!”
    “Già…molto tempo.” Ribadì lui in un sussurro. Senza preavviso la prese fra le braccia e la baciò, accostandola piano al muro. Erin non reagì, ma ricambiò il bacio. Tom…e adesso speri che col sesso si possa chiarire tutto? Lui le passò piano una mano dietro la schiena, sotto la maglietta, accarezzando la pelle calda di lei, che ebbe un brivido. Forse non chiarisce tutto, però è comunque un buon modo di riappacificarsi. Gli passò le braccia attorno al collo e con un colpo di mano gli fece cadere dalla testa il cappellino, ridendo. Ma Tom sembrò non farci caso. Ora no.
    La spinse ancora di più contro il muro. Le infilò una mano sotto la maglietta, accarezzandola piano, slacciandole il reggiseno. Era più forte di lui. Avrebbe perso la testa.
    Erin fece correre le mani sulla patta dei jeans del ragazzo. Lui le sfilò i suoi.
    “Tom…” ansimò lei, cercando di liberarsi della maglietta e spogliandolo della sua. Caddero avvinti sul letto accanto a loro, e Tom si mise a cavalcioni sulla ragazza. Le baciò il collo energicamente, quasi con violenza, ma senza farle del male. Semplicemente, la voleva. E lei si concesse…
    Lui si liberò dei boxer, e fece scorrere via dalle gambe di lei anche le sue mutandine. Fu un attimo, e si unirono.



    Tom ebbe un forte gemito. Chiuse gli occhi.
    Fu questione di un attimo…e udirono bussare alla porta.
    “Dio santo…” esclamò Erin, cercando di fermare Tom. Il ragazzo non la sentì nemmeno, e continuò imperterrito. Lei guardava ora terrorizzata la porta della camera, che sembrava voler cedere da un momento all’altro sotto i pugni di suo padre, che vi si scagliavano con violenza. “Erin! Cosa succede là dentro? Erin, rispondi!” udì la sua voce, soffocata dalle pareti, rabbiosa e feroce. Oddio…Tom doveva subito staccarsi da lei. E andarsene.
    “Tom!” disse lei di nuovo, graffiandogli una spalla nuda. Quell’asino gemette ancora, ma stavolta di dolore, e si allontanò leggermente “Piccola…che ti è preso?”
    “Muoviti idiota, staccati!”
    “Ma perché, che succede?”
    “EEEERIN!”
    “Chi era?”
    “Mio padre, rinco!”
    “Ah…”
    “Vestiti!”
    “Non trovo la maglietta...” Tom scese dal materasso con un balzo e afferrò i boxer poco distanti, poi si tuffò sotto il letto. Erin, agitata, si infilò la camicia da notte “Ma cosa stai combinando?”
    “Cerco la maglietta, genio” la rimbeccò lui uscendo da sotto il letto con in mano maglietta e felpa, che nella foga erano state lanciate sul pavimento.
    “I jeans dove sono?” chiese lui, correndo attorno alla stanza. Com’era buffo. Peccato che in quella situazione ci fosse ben poco da ridere…
    “ERIN, VUOI APRIRE QUESTA PORTA?”
    “Pà un attimo!” gridò lei, poi si voltò verso Tom, in volto un’espressione cattiva e allucinata “Ti vuoi muovere?”
    “Un attimo!” Tom chiuse velocemente la patta dei pantaloni, si sistemò il cappellino in testa e…
    “Ora basta! APRI LA PORTA!” Gridò da dietro il muro l’uomo. La ragazza non sapeva cosa fare. Appena Tom ebbe finito, lo spinse verso la finestra. Lui si girò e la guardò stralunato. Ma stava scherzando? Scendere giù da una finestra con una caviglia in quelle condizioni? “Come credi che possa fare?”
    “Se preferisci morire…per mano di mio padre, ovviamente”
    “Ok, ok, ok…ma pian…ooooh!” Erin lo spinse fuori, e il ragazzo ciondolò appeso al davanzale. Cercò un appiglio con i piedi. Oh, no. Atroce sensazione.
    “Erin…”
    “Cosa c’è?”
    “Le mie scarpe!”
    “Come le tue sca…” lei lanciò un’occhiata attraverso la stanza. Mio Dio, Tom aveva ragione…nella fretta non aveva infilato le scarpe, che ora giacevano davanti al letto, proprio di fronte alla porta. Si avvicinò velocemente per spostarle, ma prima che giungesse a destinazione, la porta si spalancò.
    “Papà…” esclamò Erin. La bocca le si era seccata improvvisamente. Non aveva più saliva, e la lingua sembrava non funzionare. Tutto ciò che fece fu aprire e chiudere la bocca, senza emettere alcun suono. Ora le pesava troppo sulla coscienza quel ragazzo appeso là fuori in attesa delle scarpe per potersi tranquillizzare. Avanti Erin, Tom è fuori…e aspetta…aspetta le scarpe. Le scarpe che tu hai lasciato sotto il naso di tuo padre!
    “Erin…che stavi facendo? Cos’è questo odore di piedi?” il padre le si avvicinò piano, guardandosi sospettoso attorno. Non c’era nessuno…o perlomeno, così poteva sembrare.
    Erin si sedette sul letto, cercando di nascondere quelle grandi e grottesche scarpe.
    “C’era qualcuno qui dentro?”
    “pà…non ne ho la minima idea” disse lei tutto d’un fiato. Oddio...stupida,stupida, non sai mentire. E lo sai. “Forse l’odore viene da fuori…” l’uomo, pensandoci qualche istante, si diresse alla finestra per verificare. Erin sbarrò gli occhi “No, lascia stare pà, mi sa che sono le mie scarpe…”
    “Le tue?” chiese lui perplesso. La ragazza fece cenno di sì e sorrise. Strinse i denti; guai a te se ti azzardi ad avvicinarti a quella cazzo di finestra…
    “Erin…c’è qualcosa che non va? Ti vedo tesa.” Lei scosse violentemente la testa. Ma certo che no “Non potrebbe andare meglio di così” mentì, sfoggiando un altro falso ma ingannevole sorriso. Ed eccolo che abbocca. E aveva abboccato. Fino ad un certo punto…
    Il padre le restituì uno sguardo un po’ imbarazzato “Avevo sentito strani rumori…pensavo fossi qui con un ragazzo”. Erin lo guardò. Lo fissò. Lo squadrò. Gli lanciò un’occhiata molto particolare. E poi gli battè piano una mano sulla spalla “Papi…non credi che te ne avrei parlato, prima?” disse con quella sua voce tanto ma tanto convincente. Ma le parole convincono solo a un certo punto.
    Lui le sorrise di rimando. Come aveva anche solo potuto pensare…aspetta un attimo. “Tesoro, cosa sono quelle?” chiese incuriosito e diffidente. No…no. Non poteva guardare; non voleva guardare. “Quelle cosa, pà?”
    “Quelle che hai sotto i piedi.”
    “Ah! Nnnnniente”
    “Sono tue?” chiese lui, sempre più sospettoso. Lei si guardò i piedi, per poi tornare a posare lo sguardo su suo padre. Poi le labbra le si incurvarono in uno strano sorriso e strabuzzò gli occhi “Già!”. Beh…che strano. Forse gli occhi lo ingannavano, ma gli pareva che sua figlia portasse scarpe ben diverse…e poi di certo non aveva quel piede così grosso.
    Senza badare alle obiezioni della figlia le sfilò da sotto i piedi le scarpe estranee… “Cristo Erin, di chi sono queste robe?” effettivamente erano quelle a emanare quel persistentissimo odore che aleggiava nella stanza. Se solo lei se ne fosse accorta prima. “Papà…”
    Suo padre si era già alzato. Aveva aperto l’armadio, il ripostiglio, e ora era chino a controllare sotto il letto. “Pà, ma cosa stai combinando?” sbottò Erin indispettita. Lui si alzò; ma dov’era il presunto ragazzo? “Erin, dove diavolo hai nascosto il fottuto bastardo?”
    Erin impallidì. Doveva sospettarlo. Suo padre non sbagliava un colpo.

    Fuori dalla finestra tirava un vento freddo. Tom si aggrappò ancora di più al davanzale, cercando di non mollare la presa, anche se il vento era troppo forte. Si attaccò alla grondaia; si sarebbe lasciato scivolare giù direttamente, se avesse avuto le sue scarpe con sé.
    Si fidava di Erin, e per questo preferiva rimanere aggrappato là fino a che non gli avesse lanciato le scarpe dalla finestra.
    Certo, però, ora che ci pensava era parecchio strano ritrovarsi là, coi piedi a penzoloni nel vuoto, dopo aver fatto l’amore con la ragazza che fino a poco tempo fa si preferiva non incontrare per strada. Che buffa coincidenza, Tomi…che dici, pensi che lei ti chiamerà quando nascerà? Ecco, questo è il genere di domanda che si pongono i ragazzi stupidi come il Tomi in una situazione ancora più stupida. Scemo, certo che ti chiamerà, no? In fondo…le piaci…e lei piace a te. Anche se per te non è altro che una di quelle ragazze da one-night-stand. Di quelle che Bill disprezza e tu ami, perché è molto più facile trovare una ragazza disposta a stare con te una notte piuttosto che tutta la vita. E tu odi le ragazze facili.
    E ti pareva, Tom. Di nuovo.
    Discussione sull’orlo di una stupidata.

    “Pà, di che parli, non capisco. Ragazzi? Io? Ma lo sai, da quando hai saputo questa cosa, ti ho promesso che ti avrei accennato a tutti i ragazzi con cui sto” disse con aria innocente Erin, cercando di scostare il padre dalla finestra e fargli dimenticare le scarpe. Sì, gli servivano ancora quelle scarpe, se il Tommolo non si era lanciato come un babbeo dal terzo piano…

    Wow, terzo piano Tom. Bella roba…e prima ci sei salito con facilità. Che buio…
    Tom cercò di alzare il piede che aveva appoggiato ad una sporgenza per sollevarsi.
    Non l’avesse mai fatto.
    Gli si incrinò la caviglia. Quella slogata. Non buono.

    “Cos’era quell’urlo?” chiese il padre di Erin. Oh no, che punto cruciale. La ragazza intuì che era stato quell’incapace di Tom, probabilmente come un allocco ancora là sotto ad aspettare le scarpe. Corse dal padre, diretto alla finestra aperta, e gli si parò davanti. “Papi…tu sogni. Per favore, esci, dai…stavo facendo una cosa…daiiiii!”
    “Erin. Non prima di aver visto cosa c’è là fuori. Magari è qualcuno che ha bisogno di aiuto, a giudicare dal grido”
    “Oh, questo è certo…”
    “Cosa?”
    “NIENTE…”

    Porco cane…che male, che male! Tom trattenne a stento le lacrime. Forse è la volta buona che ti fratturi qualcosa, pensò.
    Fu distratto da qualcosa.
    Sopra di lui, la finestra finora spalancata e da cui filtrava la luce della stanza, si era improvvisamente fatta ombrosa. Tom alzò lo sguardo. Oh no. E mo sono cazzi.
    “Chi sei tu?”
    “Salve…” disse piano il ragazzo, tentando di sorridere. Fece un piccolo gesto con la mano e si riattaccò velocemente alla grondaia “Se cortesemente mi ridesse le mie scarpe…”
    “Brutto porco schifoso!” gridò l’uomo “Vieni su da là, che ti do una bella scrollata! Ti sei divertito con mia figlia, eh?”
    Alla figura scura dell’uomo, si aggiunse anche quella di Erin, che si sporse “Tomi, scendi, muoviti!”
    “No, quello non scende da nessuna parte! Stai là, che vado a prendere il fucile…”
    “Papà…”
    “ERIN, SAVAMI, FA QUALCOSA!” gridò disperato Tom, arrancando su per la grondaia “LANCIAMI LE SCARPE!”
    “Datti una calmata, ora!” lo rimbeccò la ragazza, che sparì all’interno della stanza. Poco dopo riapparve , con qualcosa fra le mani. Lasciò cadere il paio di scarpe, che caddero più giù, sul marciapiede, con un tonfo sordo “Dovresti lavarteli i piedi, ogni tanto…”
    “spiritosa…” mormorò Tom in tono sarcastico.
    “Erin, non lasciarlo andare via!”
    “Certo papà!” gridò lei. Poi si voltò verso di lui “Corri, muoviti!”
    “E’ una parola” rispose Tom, ormai a terra, che si infilava la scarpa sinistra con piccoli gemiti di dolore “Con questa caviglia…”
    “Allora striscia!” sibilò di rimando Erin “Se non vuoi farti impallinare!”
    Quando vide che alla figura di lei si aggiungeva anche quella del padre, accompagnato da qualcosa di apparentemente offensivo in mano, iniziò a strisciare sull’asfalto, fino a rimettersi in piedi. Zoppicò fino alla via opposta.
    “Oh cavoli, scappa ancora” bofonchiò l’uomo, puntando il fucile nella sua direzione. Erin sorrise quando vide che il padre faceva dietrofront nella stanza e usciva velocemente dalla stanza “Quel bastardello non mi scappa! Ora lo becco in strada…”
    Erin sapeva che non l’avrebbe mai beccato. Tom era appoggiato al muro di mattoni, che faceva angolo. Si sporse e, prendendo fiato, salutò Erin con un cenno della mano “CHIAMAMI PICCOLA!” gridò in uno sforzo. La ragazza alzò i due pollici vistosamente verso di lui “Puoi contarci…” mormorò. E lo guardò sparire di nuovo dietro l’angolo, aizzato dalle grida del padre che forse gli stava correndo dietro. Ma, come già detto, non lo avrebbe mai beccato.
     
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  3. ø¤º°°º¤Tokio Girl¤º°°º¤ø
     
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    Bellaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa...ihih...come rompe il padre di Erin però...continua!!!
     
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  4. @>Billina@>
     
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    Bella....
     
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  5. •B a b y W a y.
     
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    stupeeeeendaaaaaa!!!
     
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  6. °°Vanilla°°
     
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    GRAZIE A TUTTE PER I COMMENTINIIIII !!!! :P ViViBi
    buona lettura...


    Zoppicava troppo. Non sarebbe riuscito a fare un passo di più…
    Fortuna che a quell’ora non c’era in giro nessuno; se fosse stato riconosciuto, forse sarebbe stato assalito da qualche fan urlante.
    Ormai era di fronte all’albergo. Che velocità, Tomi…forse l’idea di essere impallinato ti ha aizzato più del dovuto.
    Entrò nella hall trascinando il piede sinistro. Anche quella era vuota. Si sarebbe volentieri seduto, ma doveva assolutamente arrivare in stanza prima che…
    “Dio, dove sei stato? Hai idea di che ore sono?” sbottò Bill, sbucando dall’entrata e facendolo sussultare. Ecco, appunto. Ci mancava il simpatico gemello spacca palle. Il ragazzo lo prese per le spalle e lo guardò negli occhi, infuriato “Domattina partiamo, e tu come sempre hai fatto il coglione tutta la sera. Domani sarai in uno stato pietoso, te lo dico io…hai bevuto? Sei ubriaco?”
    “Lasciami in pace scemo, sto benissimo…” ridacchiò il rasta allontanandolo con una spinta. Si trascinò fino all’ascensore, e premette il bottone di chiamata. Il gemello sbattè un pugno contro le porte dell’ascensore, per richiamare la sua attenzione. Lo squadrò torvo “Sei un incosciente. Ti sei rotto la caviglia, vero?”
    “No, non credo…un po’ riesco a muoverla.” Disse Tom di rimando. Sollevò la gamba sinistra e cercò di muovere il piede, piccoli movimenti che gli provocavano dolori lancinanti, ma trattene eventuali gemiti, per dimostrare al fratello che stava bene. Stava benissimo. Non aveva bisogno di… “Cosa cazz…” Bill si abbassò e gli afferrò il piede con le mani, girandolo con noncuranza. Ahia.
    “MA BILL, PORCA PUTT…”
    “Ah, tutto sommato non stai poi così bene, allora…” bofonchiò tagliente e sarcastico il ragazzo, appoggiandosi al muro e squadrandolo con aria perplessa. Tom lo guardò, allucinato, reggendosi la caviglia con le mani. Era sulla soglia delle lacrime “Bill, sei un coglione! Mi hai fatto male!”
    “Cristo santo Tom, vuoi spiegarmi come speri di suonare al concerto di dopodomani con quella caviglia?”. Bill non gli stava facendo la ramanzina. Ora era veramente esasperato. Sapeva che per quella cazzata del fratello ci sarebbe andata di mezzo tutta la band, e questo Tom lo sapeva. Ne era profondamente consapevole. Cercò di dimostrarglielo, richiamando in viso una faccia dispiaciuta, ma il fratello non lo stava guardando. Stava fissando il soffitto, mordendosi un labbro e passandosi una mano fra i capelli; calmati, Bill. Calmati. La calma è tutto, in queste situazioni.
    “ Tom…”
    “Sì?”
    “Allora. Se non potrai suonare…”
    “Suonerò. La caviglia non è rotta…un po’ di ghiaccio e tutto tornerà a posto.
    “Sicuro?”
    “Certo, Bill. Non preoccuparti.” Il ragazzo lo guardò con fare rassicurante, e quando le porte dell’ascensore emisero un tintinnio di avvertimento, lui vi si infilò attraverso, senza smettere di fissare con quel sorriso studiato il gemello. Che ora sembrava un po’ più rilassato.
    “Ci vediamo domattina.”
    “E vedi di esserci. Partiremo il prima possibile”.
    “Contaci, fratellino.”
    Tom premette l’ultimo bottone e le porte si richiusero sull’immagine del fratello.
    Aprì la porta della camera, e si gettò con cautela sul letto. Che vita, ragazzi, che vita.
    Nella tasca dei jeans vibrò il cellulare. Chi è adesso?
    Il ragazzo inserì una mano nella tasca. Sorrise alla vista del numero che lo stava cercando…accostò il telefono all’orecchio.
    “Ehi, piccola…”


    Era tornato…
    Erano passati sette mesi dall’ultima volta che era stato in quella città. Così tanto tempo. E niente sembrava variato.
    Tom Kaulitz guardò fuori dal finestrino della limousine; l’inverno è la stagione più triste e monotona. Non succede mai niente, e il cielo sembra così spesso e denso da poter essere tagliato con un coltello.
    Ecco l’albergo…sempre lo stesso. Ma all’entrata, stranamente, nessuno. No stampa, no tv, no fans. Tutto sommato, la cosa lo tranquillizzava.
    Aprì la portiera del veicolo, e un fitto ma leggero nevischio lo investì. Non faceva particolarmente freddo, ma quella malinconia nell’aria ghiacciava più del vento.
    Si incamminarono tutti e quattro lungo il marciapiede, circondati da guardie del corpo. Bill osservò il fratello. Che pomposo. Con questo schifo di tempo ha il coraggio di indossare gli occhiali da sole. Ma le ragioni potevano essere tante.
    In primo luogo, Tom aveva delle mostruose occhiaie…non aveva dormito per niente quella notte.
    In secondo luogo preferiva non scambiare sguardi diretti coi suoi compagni, per paura che si accorgessero che qualcosa non andava.
    Per finire, quei grandi occhiali scuri erano molto utili, oserei dire ottimi per scaricare inosservati qualche lacrima di tensione.
    Perché il concerto era previsto proprio in quei giorni? Perché quell’ennesima data a Berlino, la terza in meno di due anni? Perché questa cosa infame?
    E soprattutto: perché in soli dieci mesi aveva lasciato che tutto accadesse, come un povero stupido?
    Ma…ma perché dal giorno prima gli occhi gli lacrimavano senza preavviso?
    Ma insomma, tutte queste domande?
    Inetto, inetto, inetto. Devi essere duro con te stesso, perché non sei stato in grado di gestire la situazione. Ora sei abbastanza nei guai. Tuo fratello ti guarda, smettila di fare il pensieroso.
    Entrarono nella hall, in quel momento vuota. Si diressero verso la reception, Bill in testa, seguito da Georg, Gustav e, diversi metri più in dietro, Tom.
    Non poteva permettersi distrazioni…doveva solo riposare. E concentrarsi sul concerto.
    No, doveva avvertirla che era ritornato. E che forse si sarebbe presentato quando fosse stato il momento.
    “Tom, muoviti!” esclamò Bill, lanciandogli la chiave magnetica, che il rasta afferrò con riflessi fulminei.
    Salirono diversi piani, su quell’ascensore. Chissà quante volte quel freddo e lento mezzo era stato teatro di oscenità. Di sicuro era capitato, almeno una volta, parecchi mesi prima.
    Entrarono nel corridoio e imboccarono ognuno una porta diversa; oh, perlomeno non gli era toccata la stessa stanza dell’ultima volta… ora era in quella accanto alla grande finestra, che luccicava alla luminaria interna e gettava una lunga ed intensa visuale del paesaggio invernale cittadino.
    Ehi Tomi…sarà un piccolo sagittario.
    Cosa diavolo blateri? Davvero sei interessato?
    Le ho telefonato. Le ho detto che saremmo tornati per la tournèe.
    Chi se ne frega di quello che le hai detto…sai bene che non vuoi.
    Ma no…voglio vederla, è solo il nervoso che…
    Tomi….
    Basta…avete bisogno di un buono psicologo…tutti e due.
    Io? Ma io che c’entro?
    Siete tutti nello stesso brodo. E’ inutile che fai il finto tonto.
    Ok, ok…come non detto. Scusa.
    Si sedette sul letto. Che stanza fredda e ordinata. Tolse gli occhiali; aveva gli occhi contornati di rosso, e faticava a tenerli aperti…erano gonfi e ancora umidi.
    Prese il cellulare e compose un numero che conosceva bene. Lo accostò all’orecchio e udì il tipico segnale acustico d’attesa. Rispose una voce femminile.
    “Sì? Qui è l’ospedale di Berlino, cosa posso fare per lei?” il ragazzo esitò qualche istante; chiuse gli occhi e fece un mezzo sorriso. Pura pazzia “Salve…”

    Chiuse la comunicazione. Ora sì che andava bene. Ora sì.
    Lei era già in ospedale. Mancava relativamente poco. Aveva chiesto di essere avvertito…al momento opportuno.
    Dio buono, fa che non accada domani sera. Non domani sera. Non durante il concerto.

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    simo
     
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    Continua.......
     
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  9. •B a b y W a y.
     
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    troppo bellaaaa continua!! ..eh Tommino.. che mi combini..
     
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  10. °°Vanilla°°
     
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    Eccoci... questo è il mio pezzettozzo preferito... =P
    spero piaccia un pò anche a voi! =)

    buona lettura


    Il pubblico non faceva che gridare. Quel rumore assordante scosse tutto.
    Forse la maggior parte di loro, laggiù, attendeva da quella mattina…e ora non poteva trattenere l’entusiasmo.
    Ma qualcuno, là dietro, era al di fuori di tutto ciò. E per lo meno si auto considerava tale. Tom Kaulitz, infatti, sedeva in un angolo della stanza, e fissava il vuoto.
    La chiamata dell’ospedale era soggiunta un’ora fa. Le mura della stanza trasudavano un misto di emozioni provenienti da là fuori, dai fan, e dall’interno della stanza, da quel piccolo essere umano così insignificante rispetto a quel bagno di carne oltre quella soglia, ma considerato ingenuamente da tutti loro come una divinità collettiva. Pazzesco, no?
    Ma lui era impassibile a tutto ciò.
    Fissò inespressivamente, dondolandosi sulla sedia, il cellulare che aveva lasciato poco lontano.
    Chiamate, vi prego.
    Non poteva continuare così.
    Con quel viso efebico ormai catatonico…le mani tremanti. Come avrebbe suonato quella sera? Non era importante. Perché da ore aspettava quella chiamata, e non sarebbe uscito da lì prima di averla ricevuta.
    In quel momento la porta si spalancò.
    “Tom. Ti prego. Vieni fuori.”
    “No.”
    ”Non dipende da me…ti scongiuro. Abbiamo bisogno che…”
    “Ho detto di no.”
    “Ma…”
    “No, no e NO!” sbottò infine il ragazzo, girandosi e dando le spalle al fratello, che con sguardo perplesso gli posò una mano sulla spalla. Sapeva che era difficile.
    “Tom…ti prego…so come ti senti”
    “No, non puoi saperlo. Non fare il saccente”
    Aveva ragione lui. Non sapeva proprio niente. Ma doveva farlo uscire di lì in qualche modo. Si passò una mano sulla fronte, ascoltando gli schiamazzi della folla; erano aumentati. Aspettavano solo loro.
    “Non lo so, va bene, sono uno stupido. Ma tu sai come la penseranno se non uscirai da questa stanza, Il tuo posto ora è su quel palco” replicò Bill, frustrato e agitato, cercando però di mantenere la calma.
    Tom riprese a dondolare sulla sedia, aggrottò la fronte, si guardò le mani, incrociate in grembo. Non sarebbe uscito.
    Irruppero nella stanza Georg e Gustav. L’atmosfera cambiò in un attimo.
    “Cosa sta succedendo? Perché siete ancora qui?” chiese nervosamente il primo, mentre il secondo si aggiustava concitato le fasciature alle dita. Bill si voltò aggressivo verso i due “Questo incapace vuole aspettare!”
    “Tom, capisco come ti senti, ma forse è meglio che ci pensi dopo” tagliò corto Georg, cercando col suo solito tatto di appianare la questione. Il rasta lo fissò accigliato. “Non posso pensarci dopo” sibilò acido “Se tutto sta accadendo ORA”. Non poteva esistere incalzo per quell’affermazione, e la convinzione di Georg vacillò.
    “Tom” accennò Gustav, incredibilmente calmo, con un gesto della mano. “Hai sempre detto che non te ne importava niente. E ora? Stai ribaltando tutto? Noi cosa dovremmo pensare? Quelli là fuori, cosa dovrebbero pensare? Eh?”
    No repliche.
    No comment.
    Silenzio…
    …il cellulare vibrò.
    Ma non una volta sola. Due. E poi tre. E quattro.
    Con scatto fulmineo Tom si alzò dalla sedia e afferrò scompostamente il telefono, lo spalancò e lo accostò all’orecchio. “…Sì?” disse con un filo di voce; non riuscì ad aggiungere altro. L’intenzione era di dire “Qui è Tom Kaulitz, chi parla?” ma la voce in un attimo sembrò sparire.
    E una voce femminile proruppe dalla cornetta “E’ lei Tom Kaulitz?”
    “Sì…”
    “Mi scusi, chiamo dall’ospedale di Berlino, poche ore fa ci ha cortesemente chiesto di essere informato…”




    “Lasciami andare, Bill!” sbottò in malo modo Tom, mentre il gemello cercava di trattenerlo per una manica. Non poteva lasciarlo andare. “Non osare uscire da…”
    “Bill, ma che cazzo, vuoi tenerlo bene?” proruppe Georg, spingendo di lato il ragazzo e afferrando saldamente Tom per entrambe le braccia. Quello iniziò a dimenarsi. “Georg, piantala, mollami!”
    “Tom, ritorna in te, stupido” esclamò Bill tentando di farlo ragionare. Non sarebbe stato facile, il rasta era una vera testa dura.
    “Hai tutto il tempo del mondo per raggiungerla…”
    “Ti sbagli, non capisci, dopo il concerto non ci sarà più tempo!” gridò Tom di rimando, quasi esasperato. Era vero. Gli altri tre lo constatarono con uno scambio di sguardi. Sarebbero stati assaliti da fans, giornalisti, ancora fans e ancora giornalisti. Non ci sarebbe più stato tempo per le cose vere.
    Era una realtà che li perseguitava ovunque. E finalmente Tom vi si era ribellato.
    “Tom…se non esci da questa stanza entro cinque minuti, ti butto nella folla a calci in culo. Loro ti faranno più di quanto non potrei mai farti io, non credi?” disse candidamente Gustav, fissandolo con insistenza, mettendolo un po’ in soggezione. Forse non l’avrebbe fatto cedere, ma quel punto era a suo favore. Tom si guardò attorno, disperato…se avesse avuto le mani libere, ci si sarebbe coperto il viso.
    La presa di Georg non dava segni di cedimento. “Ascolta…siamo tutti nervosi. Sì, è vero, tu hai un problema più grande di te…ma lo puoi vivere solo fuori da qui. Tu qua dentro sei Tom Kaulitz il chitarrista. Non hai tempo di fare il padre.”
    Le parole di Bill suonarono crude e poco sensibili. Lui non voleva fare il padre, non gli era mai nemmeno passato per la mente. Lui voleva soltanto sapere di fare la cosa giusta, per una volta. Cercò ancora di liberarsi dalle mani del bassista, atto che si rivelò alquanto inutile; che scena ridicola.
    Gustav, con il sentore della frase che aveva pronunciato poco prima, lo fissava con un’aria a metà fra il comprensivo e l’incazzato, rigirandosi nervosamente le bacchette fra le mani.
    Bill, esasperato, non faceva che camminare avanti e indietro per la stanza, mettendosi le mani nei capelli, e fermandosi a tratti per sistemarseli o per sentire se là fuori qualcuno protestava.
    Georg non mollava la presa, e osservava spaesato il pavimento. Probabilmente stava considerando la frase: perché queste fottutissime cose accadono solo a me?
    Tom, un’autentica figura in tragedia greca style, osservava contrariato la porta della stanza. Sì, sarebbe uscito…ma non era pronto per suonare. Doveva andarsene da là.
    In quel ridicolo quadretto, i fantastici 4 apparivano come un gruppetto di perdenti disperati.
    Il tempo era scaduto.
    Se non saliva sul palco, l’avrebbero fatto fuori con le loro stesse mani.
    Ma non ce ne fu bisogno. In un lampo Tom pestò con forza il piede su quello di Georg, che emettendo un gemito mollò simultaneamente la presa “Oh Cristo…ma sei fuori?”
    Tom non lo degnò di uno sguardo e, appena libero, spinse da parte Gustav e si fiondò verso la porta, mentre Bill, gli occhi fiammeggianti, puntava verso di lui “Tom, inizi a farmi incazzare…torna qua!”
    “Ma neanche…” il rasta si chiuse con forza la porta alle spalle e corse via, appena in tempo per non essere acciuffato dal gemello. “TOM!” gridò lui, sporgendosi dalla porta e fissando allucinato il fratello che, scompostamente, correva in direzione dell’uscita posteriore. Non lo seguì. Non sarebbe riuscito a raggiungerlo, né tantomeno a convincerlo.
    Ritornò nella stanza e, con fare rassegnato, si lasciò scivolare sul pavimento, la schiena premuta contro la porta, il viso fra le mani. No. Non doveva piangere…non ancora, almeno.
    Georg e Gustav gli si avvicinarono. “L’hai lasciato andare…”
    Bill annuì. Sì, l’aveva lasciato andare. Niente Tom, niente concerto.
    Gustav si piegò su di lui e gli mise una mano sulla spalla “Bill…e adesso?”
    “E ADESSO COSA STUPIDO RITARDATO!” gridò lui, scostandosi le mani dal viso, lasciando intravedere gli occhi rabbiosi e lucidi, e il trucco attorno agli occhi che andava pian piano sfumandosi sulle guance. Sì, ora piangeva. Piangeva di autentica rabbia repressa. “Adesso non facciamo un bel niente, ragazzi! Adesso siamo finiti!”
    Georg si voltò, osservando il muro. Le onnipresenti urla delle fan scuotevano tutto. Tom, torna presto…

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    eheheh...Tom...
     
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    ommioddiooooooooooooooooooooo!!! troppo bella... TOMI.. ti prego.. torna presto!!!!
     
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  13. ø¤º°°º¤Tokio Girl¤º°°º¤ø
     
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    Ma Tomi che combina!!!!...ihih continua comunque!
     
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    spero qualcuno abbia ancora voglia di stare a leggere questa roba :sweatdrop:
    in ogni caso posto
    buona lettura

    Tom scese in strada. Non si era accorto nessuno, oltre ai suoi compagni, che aveva lasciato l’edificio. L’aria era fredda e respirando Tom emanava nuvole opache che si libravano verso l’alto e scomparivano senza lasciare traccia.
    Faceva freddo. Quel venticello serale era quasi tagliente. Si sfregò il viso con una manica della felpa, indossata in fretta e furia, per togliersi quel sentore di congelamento di dosso. Mosse qualche passo verso la fermata dell’autobus non molto distante, mentre i lampioni e le poche macchine di passaggio illuminavano il marciapiede.
    Nessuno, oltre a lui, si aggirava per la strada. E ora cosa faranno quei tre? Non possono rimpiazzarmi, non possono senza di me, non potranno esibirsi.
    Che aspettino. I fans sono impazienti, ma aspetterebbero tutta la notte se volessero davvero vederci. Ecco una prova di fedeltà a cui, prima o poi, avremmo dovuto sottoporli…
    Giusta osservazione, Tomi.
    Ehi, grazie!

    Scese lungo la strada, ormai la fermata era vicina. Ed era deserta… Si sedette sulla panchina, avvolgendosi le braccia attorno al corpo, stordito dal freddo. I piedi gli stavano congelando, come pure il naso e qualunque altra parte del corpo esposta al freddo. Di nuovo, con le maniche della felpa si sfregò il viso e cercò di riscaldarsi le mani alitandovi sopra. Non che servisse.
    Appoggiò i piedi sul bordo della panchina e si avvolse le gambe con le braccia, come per tenersi assieme, per non cadere a pezzi. Quel freddo lo stava estenuando.
    Guardò lo schermo del cellulare. Le 9.37…il concerto sarebbe dovuto iniziare alcuni minuti fa. Ora tutta quell’orda di persone attendeva che i TH si facessero vivi su un palco, che forse fino alle 10.00 sarebbe rimasto vuoto.
    Pazienza. Sempre sulla difensiva, Tomi: una vera e propria prova di fedeltà Tomi.
    Ma certo, sulla difensiva, sto sulla difensiva… “Sulla difensiva…” mormorò a vuoto con voce roca.
    Fece un lungo sospiro e si lasciò ricadere il viso sulle braccia, cercando di risparmiare forze e calore corporeo.
    Si chiese se stava facendo la cosa giusta. In fondo, quella cosa era parecchio strana. Tom che scappa da un concerto per raggiungere una ragazza in ospedale. O per lo meno, il fine era strano.
    La sua più recente fantasia erotica prevedeva che lui si scopasse una ragazza in un letto d’ospedale. E già che c’era, pure l’infermiera. Però non credeva che ci sarebbe andato per un motivo così sentimentale…
    Iniziava a sentirsi parte di qualcosa di più grande, di immenso, di sconfinato…forse, una specie di ciclo della vita.
    “Nooo…” si lamentò piano. Quel pensiero aveva avuto sulla sua mente lo stesso effetto di una fiammella su un foglio di carta. Un pensiero che bruciava.
    Si diede un piccolo pugno sul ginocchio e riacquistò un po’ della ragione residua che aveva accumulato senza perdere in quelle ultime ore.
    Arrivò l’autobus, svegliandolo dal suo torpore. Beh, almeno adesso non sarebbe stato al freddo e al buio. Si alzò a fatica, intirizzito, e quando le porte dell’autobus si aprirono lui vi entrò.
    Si accomodò nel posto più lontano dal guidatore, e si tirò la felpa fin sopra il naso, coprendosi la testa col cappuccio. E ora aspettiamo il capolinea.



    Tom si svegliò di scatto. Picchiò la testa contro il sedile davanti…il motore dell’autobus smise di rombare. Era arrivato al capolinea.
    Si stiracchiò velocemente e guardò fuori dalle porte di vetro: il buio era incredibile, là fuori. Vide non troppo lontano l’entrata dell’ospedale, un grande edificio illuminato che pareva deserto. Scese dall’autobus, e si incamminò lungo il marciapiede, costellato da piccole gocce di brina e nevischio, che avevano ricominciato con calma a scendere dal cielo. Si coprì meglio; ora il freddo era proprio insopprimibile. Si mise le mani in tasca, senza ottenere grandi risultati, e si avviò più velocemente verso l’ospedale.

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    ehehehe...so come continua...so come continua...
    comunque è bella Simooooooooooo
     
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