Black.

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    >>Chapter 1.

    Libri e vestiti sparsi in giro.
    Il mio disordine, mai passato.
    I respiri soffocati dalle coperte.
    Ho sonno lasciami dormire ancora un po’…
    La sveglia che punto tutte le sere sul cellulare annuncia l’inizio di una nuova giornata.
    “Nuova” si fa per dire, come tutte le altre.
    No. No. Vaffanculo a questa scuola di merda.
    La sveglia suona ancora stizzita con il suo trillio sempre più forte.
    Vorrei sbattere al muro quel cellulare.
    Dalla cucina sento rumori di tazze e l’aroma del caffè.
    Nel corridoio i passi strascicati di mia nonna.
    Mia madre comincia ad invocare il mio nome nella foga di farmi alzare.
    Ok. Sono qui. Pronta a servire questa mia fottuta vita.
    Odio alzarmi la mattina presto è più forte di me.
    Scendo dal letto ancora assonnata e sempre più irritata.
    Vado in bagno e mi preparo.
    La camicia con il cravattino nero.
    I pantaloni di raso nero.
    All Star grigie con i teschi.
    La matita sugli occhi, il mascara, il burro di cacao.
    Sono io.
    Faccio colazione e scappo in camera a recuperare i libri che mi serviranno oggi.
    Li metto in borsa. Prendo il telefonino, il portafoglio, le cuffiette.
    Do un buffetto senza calore, sulla guancia, a ognuno della mia famiglia e mi chiudo la porta alle spalle.
    Incomincia il viaggio.
    Recupero il cellulare maledetto dalla tasca e metto le cuffie alle orecchie.
    Orecchie che non vorrebbe udire.
    Orecchie che odiano La voce.
    Le dita scorrono veloci sui minuscoli tasti fino a che automaticamente si fermano.
    Sanno già che da quel minuscolo dispositivo verrà fuori La voce.
    Rimetto il cellulare in tasca e abbasso la testa. Il mio tipico comportamento timido, introverso, chiuso. Di sempre.
    Cammino e cammino. Le mie gambe ormai sanno dove andare.
    Si muovono intente nel loro lavoro sapendo che non sarà mai un bel posto dove andare.
    Sono rassegnate. Come sono rassegnata io.
    Tutte le notti resto sveglia dentro al mio letto fissando il soffitto.
    Il mio cervello inizia a fremere. I miei pensieri ad un tratto leggeri oscillano.
    Vogliono volare, come vorrei io.
    Penso a tante cose che davvero non basterebbe un giorno intero per raccontarle.
    Eppure eccomi qui.
    Lo faccio.
    E quando mi sveglio la mattina dopo, mi sento una stupida.
    Nel mio stupido letto.
    Nella mia stupida vita.
    Nelle mie stupide illusioni che mai cesseranno di sorprendermi.
    La voce urla. Poi si fa di nuovo lieve. Quasi lo stesse facendo per me.
    Come se sapesse che sono fragile.
    “Ich Bin Da…” dice La voce.
    Si, ci sei, sei qui.
    Ma dove esattamente?
    Nel mio cellulare?
    Nell’elettricità che scorre tra questi fili che mi consentono di sentirti?
    In un angolo anfratto che migliaia di ragazze custodiscono solo per vedere te?
    Basta.
    “Ich Bin Da..”
    Ma vaffanculo scemo! Non sei qua!
    Ecco che mi riprende. La morsa alla gola.
    Cerco di ricacciare dentro lacrime appena sull’orlo delle mie ciglia.
    Sono ormai uscite.
    Tirò su con il naso.
    E con rabbia le asciugo con la manica del giubbotto.
    Le mie gambe continuano a camminare. I loro occhi vedono un mucchio di persone.
    Poi notano le scale in discesa della metropolitana.
    L’orologio sulla parete della fermata mi avvisa che mancano ancora 20 minuti all’entrata.
    Botta di culo. Ogni tanto tocca anche a me.
    Il metrò arriva, con il suo assordante sferragliare sulle rotaie.
    I finestroni del treno appannati per la gente all’interno di esso.
    Mi affretto a giungere alla porta o la marea di persone che uscirà mi spazzerà via.
    Mi metto da parte e riesco a intrufolarmi.
    Sono piccola. Bassa e piccola.
    Lo zaino mi fa sprofondare per terra con il suo peso.
    Adesso però lo poggio per terra.
    E le mie spalle urlano di felicità, sono libere, beate loro.
    Riabbasso la testa, i miei occhi girano da ogni parte.
    Sono appena entrata. Le persone mi guardano.
    Faccio finta di niente, ma vorrei comunque evaporare.
    I soliti quattro infantili cominciano a ridacchiare dietro.
    Arrossisco. Per rabbia, per timidezza, per sfogo.
    Il metrò riprende a camminare.
    Si avvia nel tunnel. Il tunnel nero.
    Vuoto. Nero. In questo mondo solo per sentire le urla del ferro contro le rotaie.
    La voce si azzittisce. Il lettore multimediale và da solo.
    La chitarra e il basso. Anche la batteria.
    Una nuova melodia.
    Un nuovo giro di parole, di sensazioni ormai familiari.
    L’inizio e poi il ritornello.

    “Ich schrei in die Nacht für Dich,
    lass mich nicht im Stich,
    Spring nicht.”

    Non stai gridando per me idiota!
    Lo fai per te! Per arricchirti, per lasciare che la tua dignità non valga niente!
    Per lasciare che la tua dignità sia governata da insulsi oggetti chiamati soldi.
    Per avere un posto nel mondo adesso, per lasciare un segno, quando ormai nessuno ti darà più conto.

    Una fermata, un’ altra poi un’altra ancora.
    Saluto quei fantasmi fatti di sangue e ossa.
    Gli mando un addio silenzioso, perché li odio.
    Perché hanno un cuore nero.
    Oscurato dai pregiudizi.
    Ricomincio a muovermi a passo svelto. Salgo le scale a due a due.
    Non ho voglia di fare tardi, di ascoltare la voce seccata della prof.
    La voce continua a scorrere parole, frasi, fatte di vita, fatte di lui, fatte di mondo.
    Fatte di un punto interrogativo che esisterà sempre.
    Fatte di nero.
    Continuo. Cammino. Mi fa male la milza. Ma faccio finta di niente.
    Come se volessi sfidarmi da sola. Come se volessi punirmi…
    Già.. punirmi di cosa?
    Punirmi di tutti gli sbagli commessi.
    Di tutte le cose mandate all’aria.
    Vedo altra gente con passo lento dirigersi verso la scuola.
    Il loro passo è svogliato. Lasciato andare all’essere obbligati ad andarci.
    Il mio passo è svogliato, ma svelto. Il mio passo è lasciato andare all’essere obbligato.
    Gli stessi volti. Le stesse grida di quelle ochette false sedute sulle scale.
    Lo stesso puzzo di sigaretta che impesta l’aria.
    Salgo le scale. Apro la porta del corridoio.
    Mi rendo conto che ho voglia di vomitare.
    Gettare qualcosa che si trova dentro di me che non è affatto mia.
    Altri passi lenti. Stavolta pesanti.
    Verso di me. Perché proprio verso di me?
    Chi ha questa urgente voglia di vedermi?
    “Oh! Esperimento! Guarda chi c’è?! Esperimento di merda!”
    Io, piccola creatura stretta, bassa, bianca e nera.
    Lui, grande, grosso, tarchiato, stupido, arrogante, largo, incolore.
    “Senti non mi scassare i coglioni grandissimo impigiamato del mio cazzo!”
    “Da quando in qua hai il cazzo?”
    “Falla finita.. oggi non è giornata…”
    “Non è mai giornata vero Esperimento?”
    “No. Perché le mie giornate non sono mai giornate! Esiste solo la notte per me. Adesso vaffanculo per favore… “
    Mi guarda incredulo, come se avessi parlato una lingua diversa dalla sua.
    Evidentemente non capisce.
    Evidentemente non capisce perché non sa.
    Se ne va girandosi a guardarmi di nuovo.
    Ho l’impressione di aver sentito in un sussurro “La gente è pazza…”
    Ma non vi faccio caso e imbocco senza altre interruzioni nella mia classe.
    Vuota. Nera. Come me.
    La sento familiare. La sento mia amica. La sento vicina.
    Solo adesso mi rendo conto di quanto sia vuota davvero.
    Senza il brusio di voci.
    Senza il raschiare dei banchi e delle sedie sul pavimento.
    Senza alcun movimento.
    Iniziano ad arrivare i miei cosiddetti “compagni” di classe.
    Ma perché se sono compagni ti trattano lo stesso di merda?
    A mano a mano insieme a loro avanzano anche i minuti.
    Non vedo arrivare nessuno che io voglia vedere arrivare.
    Non vedo nessuno imboccare la porta esattamente come io ho fatto, dirigersi da me e salutarmi affettuosamente, guardarmi negli occhi e capire chi sono.. consolarmi, appoggiarmi, esserci, mostrarsi….
    Nessuno.
    Io che aspetto. Io che vedo i banchi dietro al mio privi di un calore.
    Io sempre più in ansia. Io che vedo la professoressa di francese arrivare di gran carriera in classe.
    Io che lascio andare la speranza che qualcuno si faccia vivo.
    Io che mi rassegno, abituatami al fatto che oggi è una giornata nera.
    Tiro fuori il libro e il quaderno.
    La prof inizia a spiegare e mi rinchiudo.
    Abbasso la saracinesca e improvvisamente diventa tutto nero.
    Il mio mondo è nero. Sono io che ce l’ho fatto diventare.
    O no… il mio mondo era già nero dalla mia nascita.
    Nere sono le lacrime cadute e asciugate.
    Nere perché sono zuppe del mio animo.
    Nero.

    >>Chapter 2.

    Un altro squillo. Un'altra sveglia.
    La campanella vigorosa annuncia le 11.20.
    Ora dell’intervallo.
    Odo il grande scalpiccio di tanti passi farsi avanti nel corridoio davanti alla mia aula.
    In classe tutti sono già scappati al bar.
    Io invece, rimango seduta esattamente dove sono.
    Nella mia sedia, nel mio banco.
    Entrambi riscaldati senza un calore vero.
    Sembro fatta di ghiaccio in effetti. E le mie mani ne danno la sicurezza.
    Violacee e rovinate dal freddo.
    Inaspettatamente sulla porta viene avanti una persona conosciuta.
    I capelli rossi, i lineamenti fini, ma marcati, i suoi vestiti scollati.
    Eppure non è come sembrerebbe. Non è come le altre.
    Lei piccola peste. Lei angelo bruciato da tante esperienze.
    Lei definita da tanti “Sharon, Piccola Emo”.
    Non gli ho mai riservato un bene troppo affiatato.
    Ma oggi qualsiasi cosa mi va bene purchè sia qualcuno che mi sostenga.
    Le vado incontro abbracciandola con una stretta morsa.
    Stupita mi asseconda. Ci guardiamo negli occhi per un istante.
    Nei suoi vedo semplicità, odio, rabbia, rancore.
    In serbo per tutto ciò che l’ha fatta soffrire.
    Che le ha fatto patire una parte dell’età più bella della vita.
    Una vendetta ancora fresca da agguantare
    Lei capisce. Lei anche se, non è strettamente legata a me, sa.
    Mi sfiora i capelli con un dito. E torna a guardarmi.
    Non so spiegare perché, scoppio in lacrime nuovamente.
    Non so proprio trattenermi, e il motivo è ignoto.
    Perché, cristo?
    Lei non parla, mi abbraccia con affetto.
    Si limita a sussurrarmi parole che fino ad ora nessuno mai mi aveva detto.
    Mi vuole davvero bene. Il suo cuore come il mio è nero. Ma dal suo sgorga amore.
    Dal mio sgorga voglia di uscire.
    “Sono sola…” dico tra un singhiozzo e l’altro.
    “No che non lo sei.. Io ci sono lo sai no? Hai altre persone su cui contare..” mi risponde comprensiva.
    Faccio cenno di si con la testa. Prendo un fazzoletto nella tasca del giubbotto e mi soffio il naso.
    “E’ che mi sta uccidendo… non ce la faccio più.. sta diventando un incubo…” ribatto con tono disturbato.
    Sospira. Mi abbraccia ancora.
    La imito.
    Ci sciogliamo da quell’abbraccio. I nostri sguardi sembrano comunicare fra loro.
    Come fossero esseri completamente estranei al nostro corpo.
    Mi dà un bacio a stampo sulla fronte e mi saluta sorridendo con la mano.
    Rimango nuovamente sola. Mi sento leggera. Libera.
    Forse perché ho sfogato un po’. Forse perché nonostante tutto oggi, essendo una giornata nera,
    abbia avuto qualcuno con cui piangere. Abbia avuto qualcuno che mi ha sostenuto.
    Ritorno alla mia sedia.
    La campanella suona una seconda volta. Il tempo è finito.
    Mi aspettano altre tre ore di strazio. Anche se alla fine posso sempre rinchiudermi ancora.
    E lo faccio per la seconda volta consecutiva.

    **

    Finalmente le 2.10. Si esce.
    Varco il cancello di ferro e la luce mi acceca il viso.
    Sono rimasta per troppo tempo con gli occhi chiusi.
    La strada è sempre quella, ma rifatta al contrario.
    La strada è in discesa. Proseguo dritto, svolto, attraverso, proseguo dritto.
    Scendo nuovamente le scale e salgo sulla metrò.
    Sul mezzo che mi porterà a casa.
    Risalendo le scale della fermata.
    Risalendo il percorso, questa volta in salita.
    Stavolta non mi metto a correre. Voglio camminare lentamente.
    Voglio fare tardi, rimanere inchiodata.
    Il motivo? Ignoto anch’esso.
    Probabilmente come ogni santissimo giorno, penso.
    Mia madre. Che mi bombarda di domande.
    Mia sorella. Anima in pena in cerca di me.
    E io pur avendo un rimorso dentro, la respingo.
    Mio padre. Dorme nella sua camera. Stanco di lavoro. Stanco anche lui di proseguire.
    Manda avanti il meccanismo di questa famiglia.
    Mia nonna. Nel suo letto. Con la sua gamba rovinata da uno sfortunato incidente.

    “Oggi non cambierà niente…”
    La mia voce internamente mi prepara alla sconfitta, mi anticipa quello che mi aspetta.
    Suono il citofono e poi il campanello.
    Mi viene aperta la porta da mia madre.
    Come avevo previsto…
    Com’è andata la scuola, hai mangiato, ti sei fatta interrogare.
    Le rispondo indifferente con tanti cenni consecutivi della testa.
    Mia sorella mi gira intorno.
    La porta della camera da letto è chiusa.
    Mio padre dorme.
    Mia nonna dov’è? Vedo uno spicchio di luce dalla porta del bagno.
    Lo scroscio d’acqua.
    Vado in camera mia. L’unico posto davvero unico dentro queste quattro mura.
    Lascio andare lo zaino dome fosse un sacco di patate.
    Come se mi volessi immedesimare in esso, mi stendo sul letto.
    Ho sonno.. di quello arretrato. Di quello che perdo la notte quando mi metto a pensare.
    Ma, non voglio dormire. Con tutto il sonno vorrei rimanere sveglia.
    Sulla mia scrivania la lampada, le penne e i fogli.
    Su di essi disegni. Scritte. Frammenti.
    Qua e là su un angolino del foglio un T e una H tenute assieme in un cerchio.
    Poi una B. Una grande e immensa B al centro.
    Intorno ad essa segni rossi.
    Sangue o semplice pennarello?
    Prendo i fogli e li nascondo nella scatola sotto il letto.
    Non voglio che qualcuno li noti.
    Risistemo i miei oggetti sulla scrivania. Tutti sparsi.
    Non ho neanche voglia di accendere il computer, di guardare la tv, di dormire, di scrivere.
    Non voglio essere distratta.
    Scosto le tende dalla finestra e la luce invade la mia camera.
    Il cielo è nuvoloso, grigio sempre di più in lontananza.
    Non ispira niente di buono. Esco anche se dovesse fare un alluvione.
    E’ da un po’ che faccio la menefreghista. Mi sento frizzante. Un po’ ribelle.
    Non mangio neanche. Prendo l’occorrente e scappo via.
    Avverto mia madre per far sì che non mi uccida prima del tempo.
    Sono di nuovo fuori. E di nuovo fuori esco il mio cellulare.
    Mi fanno compagnia i Green Day.
    Una delle mie canzoni preferite “Holidays” rimbomba.
    Le loro chitarre forti e veloci.
    Holidays . . . Vacanze.
    Mi piacerebbe partire.
    Magari scappare. Fuggire.
    Lasciare tutto. Allontanarmi.

    Dove? Dove vuoi andare Jessica?

    Via.. Voglio andare Via.

    Dimmi la destinazione. Ti ci porterò.

    Non ho destinazioni. Sono senza meta.

    Dai.. dimmi dove vuoi andare.

    All’inferno.

    Non c’è posto per te all’inferno.


    >>Chapter 3.

    Tiro su il cappuccio. Inizia a piovigginare.
    Tempo di merda. In fin dei conti lega bene con il mio umore.
    I Green Day finiscono canzoni e ne cominciano di nuove.
    “Boulevarde Of Broken Dreams”
    Già. Mi si addice anche la canzone.
    Continuo a camminare.
    Giro l’angolo. Davanti a me un grande cancello a inferriate.
    Entro. Sento il profumo di erba bagnata.
    Le anatre nel laghetto sguazzano verso un luogo più appartato dove ripararsi.
    Panchine. Cestini.
    Mi siedo tranquilla per terra. L’erba è congelata e coperta da brina.
    Sono seduta sotto un enorme albero.
    Mi rendo conto che sono sola.
    Ovvio. Chi ci starebbe adesso al parco?
    Meglio così. In fondo mi sono sempre trovata meglio sola.
    Le cuffiette improvvisamente cessano di suonare.
    Sul display appaiono le parole di “Batteria scarica”.
    Il cellulare muore.
    Fanculo. Fanculo.
    E adesso?
    Non mi serve il cellulare. Ho una buona memoria. Posso cantare da sola.
    Schiarisco piano la gola. Apro la bocca. Mi accorgo però di non sapere cosa cantare.
    Può darsi che “Durch Den Monsun” sia adatta.
    A questo tempaccio. A me.
    Le parole cantate da lui. Le lacrime gettate ogni volta che le sentivo.
    Escono piano. Le lacrime. Le parole.
    Il vento freddo mi taglia il viso.
    Ancora? Ma perché?
    In qualche maniera voglio che gli arrivi un messaggio.
    Come una scossa. O un sogno premonitore.
    Voglio che provi quello che io sento. Lo amo e lo odio.
    Sta arrivando il ritornello. Mi viene in mente La Sua voce.
    Da bambino. Come possa essere cambiata in questi pochi anni.
    Come possa essere cambiato lui in questi anni.
    E lo grido. Grido il ritornello.
    Com’è possibile che abbia gridato io?

    Si hai gridato Jessica.

    E perché? Perché l’ho fatto?

    Perché sei stufa. Ne sei consapevole. Gridalo che sei stufa!

    Non mi ascolterebbe nessuno!

    E invece gridalo! Fallo sapere al mondo!

    Vaffanculo! Bill Ti Odio! Ma ti amo!

    Una lotta. Un segreto.
    Ecco che cos’era quella cosa che sentivo stamattina.
    Quella cosa che non sentivo affatto mia.
    Mi porto le gambe al petto. Il viso tra le braccia.
    Il pianto aumenta. Come mai.
    Mi fa male la testa. Mi bruciano gli occhi.
    Le vene delle tempie pulsano in un modo anormale.
    Sto per morire. Di solitudine. Di freddo.
    Se qualcuno potesse stare vicino a me sentirebbe solo i miei lamenti.
    Attorno il silenzio. Com’è sempre stato.
    No. L’erba bagnata scricchiola. Sotto le scarpe di qualcuno.
    Scarpe o stivali?
    Stivali. Di quelli neri, con le borchie.
    Un lungo mantello. Jeans. Maglietta nera.
    I capelli lisci, meschati di un biondo platino.
    La sua pelle bianca è perfetta come sempre.
    Fradicio dalla testa ai piedi.
    Il trucco gli cola dagli occhi. Gocce d’acqua scendono dalle sue mani.
    Dalle punte del mantello.

    Verso di te.

    Impossibile. Eppure verso di me.

    Ma non ero sola?

    Eh cara Jessica.. Proprio quando credi di essere sola, c’è tutto il mondo attorno che ti osserva.

    Alto. Imponente.
    Mi sento ancora più piccola di quello che sono in realtà.
    Una mano. Me la porge. Bianca. Come la mia. Sembra splendere in tutto questo grigiore.
    Non so se guardare verso di lui o oltre il suo corpo.
    Perché credo di avere un’allucinazione. Credo di sognare. Credo sia trasparente.
    Il cielo si è fatto più scuro nel frattempo. I lampioni si illuminano.
    E il suo viso è spennellato di riflessi rossastri dalla luce delle lampade.
    Guardo quella mano che non si è mossa.
    Alzo la testa. La pioggia aumenta. Mi arrivano forti schizzi dappertutto.
    Sento le palpebre chiudersi a scatto ogni volta che vengono colpite dall’acqua.
    Potrei restare qui per sempre, e non si degnerebbe di un movimento.

    Chi sei?

    Chi vuoi che sia? Chi vuoi vedere in realtà tu in me?

    Ti prego vattene. Tanto non sei tu. Non lo sei più ormai.

    Non ho nulla da fare. Apparte una doccia è chiaro.
    E con un dito indica il cielo. Sorride.
    Sbuffo. Soffoco il sorriso. Il mio. Non voglio dargliela vinta.

    Quindi? Intendi restare?
    Domando indifferente. Dentro di me è chiaro che ho voglia che rimanga.
    Da un parte si. Anche se non ti conosco affatto non ti lascio da sola di notte. Da una parte no. Direi che sarebbe meglio che rientrassi. Perché stare sotto la pioggia al freddo con il rischio di finire a letto per un mese?

    Già.

    Mi alzo. Ho le gambe addormentate.
    Un brivido lungo la schiena.
    Quante domande che mi frullano in testa.
    Mi sento talmente in confusione che non so nemmeno io come mi sento.
    Ma perché mi fissi? Sono troppo intensi quei due occhi perché io li possa incrociare.
    Ti prego.
    Abbassali. Svanisci.
    No non svanire. Non è quello che penso davvero.
    In realtà vorrei restare incollata qui. Vedere ancora il tuo petto alzarsi e abbassarsi a ogni respiro lento.
    Sotto quella maglietta attillatasi a te per via dell’acqua grondante.
    Proverei ad avvicinarmi. Quante possibilità ci sono che lo faccia davvero?
    Ritorno a me. Ero di nuovo tra i miei pensieri.
    Assieme. In piedi. Una di fronte all’altro.
    Sembriamo due manichini. Completamente immobili. Zuppi. Neri addosso. Neri dentro.
    Cosa buffa: nessuno dei due fa una mossa.
    Riduci gli occhi a due fessure. Muovi la bocca sottile. Increspi un sorriso accondiscendente.
    Hai capito tutto. Sei furbo.
    Io invece come sono?
    Fai un passo avanti. Un secondo. Un terzo.
    Va bene. Sei troppo vicino.
    Un ultimo. Faccia a faccia.
    Ti arrivo all’incirca al collo. Darei qualsiasi cosa per elevarmi alla tua altezza.
    Il cuore è nero. Stranamente lo sento battere di più. Colpa tua.
    Gli occhi bruciano. Stranamente non lacrimano. Sono io.
    Le tue mani avanzano. Sussulto. Colpa tua.
    Le orecchie fischiano. Sentono La voce. La tua.
    Le dita mi solleticano il viso. Colpa tua.
    Sento il tuo viso adesso sul mio. Di lato verso la guancia in fiamme.
    Sussurri. Ma quanto ti odio. Eppure non riesco a dirti di No.

    Voglio far parte di te… credi sia possibile?

    Sposti di nuovo il viso.
    Così naso a naso. Ma almeno ce l’ho il terreno sotto i piedi?

    Reset.

    Ti prego fammi rinascere.

    >>Chapter 4.

    Labbra su labbra.
    Delicato. Forte.
    Neanche un bacio. Una danza.
    Tra le nostre lingue.
    Un carillon. Un motivo melodico scritto sui battiti.
    Ma ho mai dato il mio primo bacio? Si.
    E allora perchè questo lo sostituisce?
    Drammatico. Strano. Bagnato.
    Sento il tuo respiro farsi più lungo. L'alito caldo soffiare sul mio naso.
    Io invece respiro piano. Per paura di fartelo sentire. Per paura che tu abbia visto quanto possa essere fragile.
    Ti stacchi. Allarghi la mano e con il palmo mi accarezzi la guancia.
    Il nostro sguardo sembra essersi unito a formarne uno soltanto.

    Non possiamo stare insieme. Sei proibito. Mi lascerai. Lo so che andrà a finire così. E allora perché iniziare? Non voglio vivere di illusioni. Non voglio essere una bambola che è stata comperata per poi essere gettata. Non ci sto.

    Sbuffi sorridendo. Quel sorriso odioso, smielato. Vorrei darti uno schiaffo.
    Perché non accettare la realtà? Sei egoista. A te cosa fregherà mai?

    E se io volessi portarti con me? Non ti voglio usare. Non ti lascerò. Non ti illuderò. Non voglio avere con me una bambola. Le bambole sono fatte di pezza. Non amano. Non parlano. Sono perfette, ma a loro non batte il cuore.

    No. Non ci riesco a crederti e’ più forte di me.
    Sei suadente, in qualche modo anche convincente.
    Dolce. Nei tuoi occhi traspare gentilezza.
    Traspare solo il mio riflesso.
    Voglio crederti o no?
    Mi stringi ai fianchi con le mani.
    Ho voglia di piangere. Per l’ennesima volta nella mia vita sono insicura, indecisa.
    Debole. Illusa.

    Ti prego credimi…
    In questi anni di successo, ho preferito stare da solo. Mai avuto la voglia di unirmi con qualcuno.
    Quando ti ho visto, sono rimasto folgorato.
    Quando ho sentito le mie note scandite al vento, sono rimasto impietrito.
    Voglio stare con te nient’altro.

    Mi stringi ancora più forte.

    Vuoi convincermi? O molto più semplicemente avermi?

    Cedo. Le lacrime stavolta sono calde.
    Mi sento avvampare.
    La pioggia ha cessato di cadere e ci ritroviamo in quella posizione cinta uno dalle braccia dell’altra.

    Mi odi? Ti prego.. dimmi qualsiasi cosa e io l’accetterò.

    Io… voglio… voglio fuggire.

    Fuggiamo insieme.

    No. Da sola.

    Farò come se non esistessi.

    No.. io…

    Ti scongiuro.

    Mi accarezzi il viso asciugandomi le lacrime.
    Come sei prevedibile.
    Quanto ti odio.
    Ti avvicini come prima.
    Una nuova danza.
    Vorrei picchiarti. Sono arrabbiata.
    Con il mondo. Con me stessa.
    Un guerra interiore.
    Non ce la faccio. E’ quello che desidero e che ho desiderato di più.
    Come faccio a fartelo capire?
    Terribilmente debole. E tu potresti spezzarmi.
    Vaffanculo non mi interessa. Sei mio.
    Afferro la tua mano. Ti guardo.

    Andiamo.
    Dico con estranea sicurezza.

    Mi ricambi gli occhi in segno di incomprensione.
    Inizio a correre e tu rimani attaccato alla mia mano.
    Ora corriamo insieme.
    Quante volte sono passata da quelle vie.
    Non mi sembrano più le stesse.
    Accelero la corsa. Ho il fiatone.
    Sorrido. Sento il tuo di respiro.
    E’ affannato anche il tuo.
    Mi fermo di scatto.
    Urti contro di me.
    Per poco non mi fai cadere.
    Siamo sotto un lampione.
    La luce. Esatto il lampione.
    Cazzo. E’ tardi. Mia madre mi impiccherà.
    Può aspettare.
    Distolgo la mia attenzione verso di te.
    L’hai capito. Hai un’espressione interrogativa.

    Devo andare… o mi uccideranno a casa.

    No, rimani.

    Non posso. Vediamoci domani dopo la scuola. Sempre qui al parco. Ti prego. O mi puniranno senza farmi più uscire.

    D’accordo. Allora al parco, sotto l’albero .

    E’ più forte di me. Ti abbraccio.
    E tu mi imiti.
    Siamo entrambi ancora completamente bagnati.
    Non vorrei staccarmi più da te.
    Ti do un veloce bacio sulla guancia e scappo via.
    Mi giro mentre corro, e ti vedo ancora lì impalato, mentre mi guardi andare via.
    Non preoccuparti. Domani ci rivedremo.

    **

    Sono a pezzi. Il peso dei vestiti bagnati mi rende ancora più difficile la mia corsa verso casa.
    Ecco. Il viale, il cancello. La porta e il campanello.
    Vedo il volto di mia nonna affiorare dall’uscio.
    Mi fissa. Ha un’aria di rimprovero.
    Ha notato il mio aspetto.

    Cosa ti è successo?

    Nulla. E’ che sono uscita con i miei amici e non avevo l’ombrello.

    Mmmmh…Ah! La mamma è andata con papà a mettere benzina.

    Va bene. Beh. Vado a farmi una doccia.

    Ho ancora il fiatone. Mi stringo una mano sul petto.
    Recupero dal cassetto i miei indumenti e vado in bagno.
    Di fronte a me lo specchio. Vedo una Jessica zuppa, i capelli grondanti il trucco colato.
    Una Jessica confusa. Nera come al solito. Una Jessica fuori dal normale.
    Mi spoglio e entro nella cabina della doccia.
    Il vetro comincia ad appannarsi.
    Per adesso solo l’ acqua sta ascoltando me.
    Il suo scroscio è rassicurante.
    Mi sento meglio ora che sono pulita.
    Metto il pigiama e passo dalla cucina.
    Ho la gola in fiamme.
    Cerco di mandar giù qualcosa e prendo un’anti-infiammatorio.
    Per la prima volta mi sento nuova e felice.
    Sarà l’effetto della doccia?
    O qualcos’altro?
    Rapidamente mi dirigo in camera mia.
    Voglio appuntare la giornata di oggi.
    Cosa che non ho mai fatto.
    Cerco di ripassare a mente tutto.
    Dal comodino tiro fuori una penna e un quaderno vecchio già usato.
    All’inizio gli appunti della scuola. Lo giro dall’altra parte e mi metto a scrivere all’estremità opposta.
    Mi siedo sul letto poggiando la testa sullo schienale.
    E fiumi di parole corrono veloci lungo la carta.
    Non voglio dimenticare niente.
    E’ tutto così strano, innaturale.
    Troppo bello per essere vero. Una parte del mio pessimismo si fa vivo.
    Vorrei poter fermare il tempo. Premere i tasti della mia vita senza che scorra via troppo velocemente.
    Ho sempre paura che le cose belle finiscano subito.
    Che non riesca mai a vivere ogni cosa appieno.
    Da una parte voglio sperare che tutto vada per il meglio.
    Dall’altra mi sento ancora un’illusa.
    Finisco di scrivere. Poso tutto nel mio comodino.
    Sento uno strano rumore fuori dalla casa. Saranno i gatti randagi in giro per la strada.
    Spengo la luce.
    Mi stendo sul letto e mi copro.
    Le palpebre non reggono. Vorrebbero restare ancora aperte per non dimenticare.
    Ma il sonno ha la meglio.
    Entro nel mondo dei sogni. Quello che si vive nella realtà delle favole.
    Dove il nero non esiste.


    Buonanotte piccola. Spero che ti addormenterai con il mio pensiero.


    >>Chapter 5.

    Hai spento la luce. Sarai già sotto le coperte.
    Rimarrai ferma immobile per poi non riuscire a stare ferma.
    Lascerai che i tuoi occhi verdi lascino posto al riposo atteso. E io sentirò una fiamma baluginare nel petto.
    Come se si fosse acceso un fuoco all'improvviso in un ghiacciaio.
    Sembrerà strano, ma ti sento già mia.
    Resterei, qui tutta la notte pur di restare il più vicino possibile a te.
    Vari motivi me lo impediscono.
    Volgo per un ultima volta, stasera, gli occhi alla tua finestra, mentre una strana fantasia attraversa le mie fibre nervose.
    Come se volessi vederti spuntare dai vetri della finestra o uscire di scatto dalla porta, per venirmi incontro.
    Esattamente non so se sia vero amore.
    Credo però, di non essermi mai sentito così con una ragazza.
    Euforico, febbricitante.
    Voglio farti comunque capire che a te tengo molto.
    Mi siedo sul marciapiede e tiro fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans.
    Zuppo. Il cartone sbiadito e la carta rovinata.
    Apro per vedere se le sigarette hanno avuto la stessa sorte del loro involucro.
    Menomale. Sono intatte.
    Ne prendo una e dall'altra tasca dei jeans tiro fuori l'accendino.
    Fa un pò di capricci per accendersi, ma ci riesco.
    Provo a rilassarmi e tenere tutti i ricordi messi insieme.
    Il mio cuore e la mia testa fanno una gran confusione.
    Sembra che all'interno abbia un grande minestrone.
    Fatto di cosa poi?
    Ecco che riemergono momenti già vissuti. Passati.
    L'inizio, il "Boom", la nostra scalata verso la vetta del successo.
    A volte mi chiedo se davvero è quello che ho sempre desiderato.
    Ho tutto quello che mi occorre quindi posso dire di ritenermi il ragazzo più fortunato di questa terra.
    Tuttavia, quando mi rinchiudo per pensare sento di mentire a me stesso più di quanto non lo abbia mai fatto.
    Strano come l'immaginaria voce della coscienza si faccia viva in queste occasioni.

    Sei stimato, viziato, lodato, amato. Cosa vuoi di più?

    Prendo atto di aver sempre fatto di testa mia, di aver raggiunto i miei scopi.
    Sono riuscito a fare quello che più mi piace.
    Cantare, scrivere e mostrarlo al mondo.
    Sono fiero di me.
    Ma da questo miscuglio sfugge sempre qualcosa. E odio dover ammettere che l'artefice di quel che ne ha colpa sono proprio io. La fama. Il successo. La distanza. I continui spostamenti. La troppa gente.
    Non mi consentono di fare quello che i miei sentimenti dettano.
    Impossibilitato. L'amore per me ha sempre avuto un valore.
    Vorrei che questo valore non si sgualcisca.
    Non voglio ritrovarmi da solo o con troppe donne.
    Cerco una persona. Una soltanto.
    Che mi sappia dare quello che il resto del mondo non potrà.

    Ne sei sicuro? Là fuori migliaia di ragazze non aspettano altri che te.

    Si. So quello che voglio e non è questo.

    Dopo tante boccate lente di fumo, la sigaretta termina la sua breve vita.
    La getto via e la schiaccio con un piede per spegnerla.
    Proprio mentre sto per alzarmi vedo spuntare una macchina familiare.
    Una grandiosa Cadillac nera nuova fiammante avvicinarsi sempre di più nella mia direzione. Si ferma.
    all'interno sento rimbombare musica.
    Sento rimbombare la nostra musica ad alto volume.
    Voci di due o più ragazze che ridono e stridono.
    Dall'abitacolo una testa bionda e rastosa spunta dal finestrino.
    Esita un pò mentre mi osserva dalla testa ai piedi.
    Si decide ad uscire. Adesso che ha aperto lo sportello il volume della musica è ancora più alto e le risatine sconce si fanno sentire di più.
    Cappellino in testa. Maglia tre volte più larga. Pantaloni a cavallo estremamente basso, anch'essi molto larghi.
    Tom.
    Il mio gemello.
    Il mio compagno di nascita, di vita, di gioco, svago, di lavoro, di un legame affettivo superiore alla norma.

    Ma buonasera! Se volevi farti una doccia bastava chiedere in hotel.
    E' tutta la serata che ti cerco.
    Ho mandato a cercarti in hotel, nei paraggi dell'albergo.
    Mi ero chiesto se ti avevano rapito gli alieni.

    Beh poi ti spiego quando stiamo soli.

    Ok.. mi sembri strano fratellino. Hai bisogno di tirarti sù.

    Mi prende per un braccio e mi trascina nella sua macchina.
    Dentro trovo tre ragazze.
    Una di loro tiene una bottiglia di vino in mano.
    Dall'aspetto sembrano completamente ubriache.
    Tacchi alti, minigonne,magliette di pizzo, calze auto-reggenti.

    Tom! Non saranno mica..?!

    No no! Niente di quello che pensi tu.
    Sono nostre fan.

    Nostre fan? Mi chiedo io perplesso.
    La loro età pare si comprenda tra i 25 e i 35 anni e sono nostre fan?
    Potrebbero essere madri.
    Invece sono qui a divertire in modo sbagliato la propria vita.

    Tom si accorge che sono pensieroso e probabilmente ha intuito ciò che mi frulla nella testa.
    Di solito ci capiamo così bene noi due.
    Ma di certo non servirà la telepatia per capire che mio fratello ha sbagliato di grosso.
    Senza troppe moine mi spinge dentro la sua auto e mi ritrovo nei sedili posteriori schiacciato da due di quelle donne.
    Arrivano alle mie narici odori nient'affatto gradevoli.
    Puzzo di alcool, di sudore, di sigaretta.

    Bene signore questo è mio fratello Bill.
    Cercate di trattarlo bene.
    Lui è un tipetto tutto speciale.

    Mio fratello lancia quest'annuncio come se fossi un'occasione da non perdere.
    Una specie di offerta speciale.
    La macchina comincia a muoversi e mi sento osservato.
    Accanto a me quelle donne.
    Non che non sia abituato a essere guardato.
    Cavolo cosa dovrei fare a un concerto quando lì ci sono centinaia e centinaia di ragazze che mi fissano?
    Solo che mi sento urtato. A disagio.
    Quella vicino a me, una biondina con il piercing al naso, comincia a strusciarsi contro di me.
    Ne ho già abbastanza.

    Tuo fratello è timido vero?
    Ci penso io a farlo sentire inserito.

    Dice con voce velata.
    Inizia a toccarmi.
    Con un dito mi sfiora il naso e scende verso le labbra, il mento, il collo.
    Prosegue, ma proprio mentre arriva alla cintura dei miei pantaloni le fermo la mano.

    Tom! Ferma questa cazzo di macchina! Voglio scendere!

    Che succede?
    Mio fratello ha la faccia allibita.

    Fermati!

    D’accordo d‘accordo!

    Sono incazzato. Incazzato nero con mio fratello.
    Voglio bene a lui più di qualsiasi altro.
    Ma quando fa queste cazzate lo prenderei a sberle.
    Scendo con rabbia dalla sua auto.
    Anche se siamo gemelli, lo sa che su queste cose non lo siamo per niente.

    Io prendo un taxi. Non sto a queste regole.

    Fai come vuoi non sai quello che ti perdi eh!

    So esattamente quello che non mi perdo!

    Sei grande, grosso e maturo. Puoi decidere da solo certe cose.

    Sei irritato fratellino? Non quanto me stanne certo. Penso tra me.
    Alza gli occhi al cielo e rientra in macchina.
    Mi viene in mente una cosa. E sorrido così senza motivo.

    Ehi Tom! Aspetta! Dammi il pennarello degli autografi! Mi serve!

    Che ci devi fare?

    Dai mi serve! Domani ti spiego tutto!

    Ok. Ti ho già detto che sembri strano?
    Lo sento borbottare mentre dallo scomparto porta oggetti tira fuori un pennarello nero.
    Me lo lancia e lo afferro al volo.

    Grazie!

    Prego! A domani! Se sono vivo…
    Così si mette a lanciare occhiatine divertite a quelle che gli faranno compagnie stanotte.

    Ci sono. Ti scriverò una dedica sul muro.
    Non sarà originale, innovativa, moderna.
    Ma ci tengo. Perché ci tieni anche tu.
    E’ tardi e non vorrei svegliare nessuno.
    Silenziosamente scavalco il muretto basso.
    Nel palazzo davanti a me posso scrivere.
    C’è uno spazio ampio.

    Incido con quell’inchiostro nero sul muro ruvido.
    Dopo aver operato mi incammino e mi inoltro nelle vie desolate e buie oramai.
    Quest’orario è davvero magico.
    Nonostante mi piaccia stare attorno a tanta gente, adoro avere anche dei piccoli spazi per me.
    Quando sei completamente solo.

    Un’eternità, quella che sembra da quando ho iniziato il cammino.
    Sono stanco. Crollerei sull’asfalto.
    Non posso mollare adesso, anche perché sono arrivato all’albergo.
    Fortuna che adesso non c’è un’anima in giro per l’hotel.
    Trovo il fattorino di turno dietro il bancone.
    Quando mi vede gonfia il petto con una certa aria di importanza.

    Posso essere utile signor Kaulitz?

    Si. Vorrei la chiave della mia suite per favore.

    Eccola.
    E sventola in aria la chiave, per poi cedermela.

    Prendo l’ascensore. Di salire le scale non se ne parla.
    Sento ogni pezzo di corpo farsi di piombo.
    Apro la porta inchiavando. Mi spoglio per ficcarmi sotto le coperte.
    Non mi faccio problemi del trucco sul mio viso, dei miei capelli ancora umidi.
    Mi abbandono al sonno.



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  2. ValeLittlePrincess
     
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    E' davvero bellissima...
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  3. Clara__D
     
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    è bellissima, stupenda
     
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  4. NiandraLades.
     
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    Oddio mio, la mia vecchia ff, l'avevo postata con il mio vecchio account *-*
    Che ricordi *-*
    Peccato che non abbia avuto più ispirazione ç__ç
     
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3 replies since 29/3/2008, 12:21   133 views
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